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di Luigi Lombardo

Col nome giugniettu i siciliani indicano il mese di luglio, come dire “piccolo giugno” e questo perché in questo mese si continuano i lavori legati al frumento appena mietuto: è il mese della trebbiatura. Un tempo si faceva con i muli a retina, guidati da un solo trebbiatore, in grado di controllare una o due coppie di muli. È il mese delle transazioni sul grano e come ci dice la poesia sui mesi dell’anno:
Giugniettu è favorevuli a li mircanti
s’arricuogghiunu pieni di frummenti
e-rretini ri muli ci n’è bastanti
e cu ddisia cosi ci n’è pi-nnenti
e lu massaru cu-ccori fistanti
se nun si trasi a pagghia nunn-è-ccuntenti.
E a lu zappunaru ci-arresta ravanti
la pala, li cirnigghi e li trarenti

Ma leggiamo un vecchio almanacco agricolo del 1874:
Si finiscono di mietere i grani e le timinie e si principia la trebbia, si miete la canape, si zappa la vigna, e si tolgono sempre i germogli. Si raccolgono zucche, cocomeri, peperoni, pomidoro e poponi e altre piante della stagione. Si bada a non far coricare il bestiame fuori di giorno nelle ore di caldo, e si terrà fuori invece la notte. Si preparano intanto le terre (i maisi i stati) preparando bene e soleggiando quelle terre che sono rimaste a riposo. Si irrigano gli agrumi e si raccoglie il miele migliore, quello di satra, lasciando solo il necessario nutrimento. Si bada alla trebbia, conservando i grani in fuori asciutti, e ben divisi nei magazzini per non confondersi poi le sementi e le quantità diverse che depreziano – si prepara per il ricolto delle mandorle, carrubbe ed altri frutti della stagione che vanno a maturarsi nel vegnente agosto”.

Ma è la trebbiatura l’operazione clou del mese. Parliamo qui di “pisatura” cioè con l’uso di animali (muli soprattutto o qualche giumenta). Si iniziava a pisari (trebbiare) verso la tarda mattinata (quannu u suli cauria), allorché si metteva mano alla prima cacciata: si sfasciavano i covoni (regni) e si riempiva l’aia, spargendovi le spighe quanto più possibile in modo uniforme. La quantità di covoni sfasciati e sparsi sull’aia dipende dal numero di bestie che si impiegano. Con due muli si spargono tre mazzi (ogni mazzo consta di venti covoni).

La prima cacciata si faceva sempre più leggera. Il contadino (cacciaturi o pisaturi) fa entrare gli animali nell’aia, ponendosi al centro di essa. Egli regge in una mano le redini (i cuddani) e nell’altra una corda bagnata (u capu), con la funzione di stimolare (ma non picchiare) gli animali. Intorno all’aia si dispongono altri contadini detti misaluori (da mese, cioè operai assunti a mese), con la funzione di ributtare dentro l’aia (arrunciari) i mannelli e le spighe che fuoriescono. Il contadino “cacciatore” veste un camicione fuori dai pantaloni e un largo cappello di paglia calzato sopra un fazzoletto (muccaturi) tenuto annodato al mento.

(Foto areaiblea.blogspot.com)

Il pisaturi si pone al centro dell’aia e, aiutato dai compagni, dispone le bestie nell’aia ai bordi, mentre lui occupa il centro. In quel momento egli è “axis mundi”, un vero officiante che compie un rito millenario: frangere le spighe, separare il grano dalla paglia. Come un bravo officiante egli avviando i muli recita una solenne preghiera:
Maria vinni e-ll’ancilu passau
e st’armaluzzi m’arraccumannau
A nomu do santissimu saramientu!
e in coro, come nella mietitura:
Saramientu!

(Foto areaiblea.blogspot.com)

E adesso il trebbiatore è veramente solo a dominare la forza dei due o quattro muli che girano l’aria sotto lo scrocchio della zotta e le voci di incitamento dell’officiante.
Lu baiu cci rissi a lu murieddu
mentri ca campu iu aia ffari u iaddu
riferendosi alla maggiore forza dei muli bai. Non manca lo scherzo a stemperare la durezza del lavoro:
Marianazzu ci dissi a li buttani
lu tiempu si piagghia comu veni, iù!

A questo punto si alza un grido possente:
Maria vinni!
E i muli fanno a vutata con un giro su sé stessi, Gli incitamenti si susseguono, si approfitta del sole allo zenith per trebbiare un frumento secco e caliatu. Il dialogo con gli animali è continuo. Uno o due operai muovono la paglia sotto i piedi dell’animale: alla fine del lavoro un grido liberatorio:
Lientu! viri ch’è tardu e n’am’a-gghiri
viri ca è tardu e m’accupa lu cori! Fora!

(Foto milocca.wordpress.com)

Si pulisce l’aia (s’annetta l’aria) con la scopa dell’aia (scupazzu), fatta di steli d’iperico: il gesto in effetti è altamente scaramantico e simbolico, serve cioè ad allontanare le negatività del luogo.
Nelle masserie iblee l’aia è a-bbalata, cioè il suolo è formato dalla viva roccia e lastricato nei punti più sconnessi. Le aie più curate sono tutte bbalatati, lastricate con mattoni di calcare di forma quadrata, delimitati lungo la circonferenza da blocchi quadrati. Raramente è di terra battuta; in quest’ultimo caso prima di iniziare il lavoro si bagnava per bene il suolo (s’abbivirava), quindi si spruzzava rapidamente con acqua e vi si spargeva della pula (l’aria s’abbunava cco prullazzu i l’aria).

La spagliatura iniziava appena si alzava il vento, via via che si spaglia il frumento e le spighe vanno da una parte e la pula dall’altra. Alla fine si celebra la fine dei lavori con una lauta mangiata, al suono de friscalettu e tammureddu.
A questo punto il grano è pronto per la misurazione e la divisione: leva questo, metti quest’altro, spesso al povero contadino restavano gli occhi per piangere.

friscalettu e tammureddu