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di Letizia Dimartino

Mio figlio per la prima settimana mi ha portato due suoi amici milanesi ospiti. La mattina io “pretendevo” guardassero la vallata e le nuvole sulla cima dell’Etna lontana e i fiocchi di nebbia sugli Iblei celesti. Poi mangiavano al bar cannoli o brioche con gelato o torta Savoia e andavano in campagna subito dopo e assistevano ai lavori. Portavano magliette a mezze maniche e ogni tanto gli veniva sonno per la tanta aria presa. A pranzo gli facevo trovare gli anellini con le melanzane e la salsiccia nostra e i ravioli di ricotta e il sole inondava la tavola e mio marito parlava troppo di storia e dovevo interromperlo e lui mi guardava feroce. E dopo aggiustavano con mio figlio tutto ciò che non funziona in casa: tubi e rubinetti o fili elettrici e filtri di lavastoviglie.

E uscivano per salire sul campanile della cattedrale barocca, amore grande di mio figlio sin dai suoi primi anni di vita, e la sera si faceva prima rosa sulla città sottostante e la pietra si addolciva nel suo grigio monotono. La cena era tipica, il vino appena stappato, io ridevo, mio marito a tratti si incavolava, mio figlio ci faceva dimenticare tutto, i fichi d’india rubino, le mandorle tostate, la ricotta con la cannella. Mi veniva una stanchezza molle, il loro parlare nel milanese elegante, le voci mai alte, la loro città nordica da sempre amata da me. E andavo in camera più serena, i loro racconti, e quelli nostri. Mio figlio con i capelli mai pettinati. La felpa e la barba lunghissima e nera nera. Buonanotte, dicevo. E spegnevo la luce.

di Letizia Dimartino

Trenta anni fa nella nostra casa di campagna, circondata da muri a secco tipici ragusani, venne in estate un uomo che li sapeva riparare. Era naturalmente senza età, con la schiena sempre piegata. Non si raddrizzava mai. Lavorava durante la controra. Noi stavamo a letto, le persiane abbassate, il silenzio caldo intorno. E lo sentivo che parlava. Sapevo che non c’era nessuno oltre lui. Mi alzai e uscii sulla veranda per sincerarmi. Stava piegato con un arnese tenendo nell’altra mano una grossa pietra e le parlava, dicendole in dialetto: vieni qui, non avere paura, resta ferma, non ti faccio male, vuoi carezze? Aspetta e vedrai che ti farò bella.

Restai interdetta. Tutto il pomeriggio ebbe un colloquio ad alta voce con le pietre grigie e porose e mute. Erano la sua vita. Adesso noi parliamo invece con i computer, ho visto e sentito un mio collega bistrattare il proprio e adirarsi con lui allo stesso modo di quell’artigiano antico.
E così il mondo in trenta anni è cambiato. Ma forse ancora chi scolpisce la pietra parlerà nei pomeriggi e farà carezze, chissà.

(Foto Giulio Lettica)

Foto banner e social Giulio Lettica

di Letizia Dimartino

Quando al mare piove si fa intorno tutto un silenzio. Per primi siamo noi che parliamo a voce bassa, gli uccelli zittiti e increduli. I vicini come scomparsi nel loro vocio continuo. La campagna sola, il fruscio intensissimo degli alberi, il paese che da qui sembra non esista più. Tutto è sospeso. Solo il ticchettio intenso sui tendoni della pioggia, sul granito della veranda. Io sto di colpo male, mi sdraio, prendo le gocce e guardo il mare di un colore non estivo e cupo. Suona l’orologio del campanile l’ora: ed è subito tutto bello.

Stamattina mi sveglio poco prima delle sei: piove. Cielo scuro. Freddo in questa campagna sbattuta dal vento, gli alberi coi rami a dondolare. E allora penso subito al ritorno in città, ai negozi con i golfini pesanti in vetrina, alle sciarpe soffici, alle camicie da notte lunghe che indosserò fra non molto. Voglio lasciarlo questo mare incupito, questa casa con le persiane e con gli spifferi. Non siamo in Scozia, nessun camino acceso, ma un letto dalle lenzuola lisce e calde, in cucina oggi spaghetti con i pomodori essiccati e l’olio aromatico, le foglie del basilico in ciuffo. Due gatti randagi sostano sulla soglia a ripararsi, mia figlia a giorni andrà via, il tormento e il pensiero che si fanno pesanti, il sibilo all’orecchio. La città che mi aspetta e quello che vorrei e mai più sarà. Mangio una fetta di pane tostata, metto una giacchetta. La voglia di fuggire.