di Vincenzo La Monica
Si può togliere l’isola a una siciliana? E il mare che di quell’esperienza è orizzonte, frontiera, sostanza, arto? Lo si può amputare?
L’essere o non essere che ogni isolano traduce nel dubbio sull’andarsene o il restare, rivela la consapevolezza di dovere prima o poi scegliere: meglio rimanere e soffrire per lunghi anni il rovello del prigioniero vezzeggiato, (una cella con vista mare) o meglio lasciare l’isola così come si viene meno a un principio, accettare l’inesorabile creazione di una frattura all’interno della propria esistenza e vagare storpio, ma salvo, su strade aliene, a rigirarsi per sempre la nostalgia nella piaga?
A meno che non si abbia la sensibilità poetica di Dolores Carnemolla che nel suo ultimo e lungamente atteso libro di poesie, intitolato, appunto, “Senza il mare”, ricrea la sua isola nell’arte, con un’originale operazione di geografia sentimentale. I versi come un perimetro di costa. E un sottotitolo che accende un paio di candelotti di dinamite sotto tutte le parole scritte finora: versi della gratitudine.

“Senza il mare” è infatti un libro che scioglie il canto dell’abbandono, anche quello più atroce, nella pace ritrovata degli affetti, nella sorpresa di esserci, nel sì alla vita, nonostante tutto. Si leggano i versi programmatici della poesia che dà il titolo alla raccolta:
Mi sorprendono
L’ondeggiare dei giorni
I bilanci degli anniversari
i lutti rassegnati
le rinascite impazienti
i sogni vagabondi.
Mi sorprendono
le estati senza il chiasso,
le notti senza il mare.
Dolores è una poeta (dicitura che lei stessa preferisce a poetessa) che ha conosciuto il dolore e ha deciso di innalzare ugualmente un canto alla pienezza della vita. Sa bene che l’esistenza è impasto di una materia dolorosa e sceglie di usarla per dare sostanza ai suoi componimenti: lo strazio di essere una figlia lontano nello spazio, mentre il padre muore nel pallore di un tramonto, l’addio alle due madri, la Sicilia e la donna che l’ha messa al mondo, il pianto che irrompe in una festa, l’ignoto destino di un bambino morto in grembo, prima di vedere la luce.
Si prenda come esemplare di questo dolore universale la poesia. Questo stare dove l’angoscia della persona chiusa in casa nei mesi del lockdown, nella coercizione della TV che trasmette la contabilità dei morti di Covid si trasforma in una pietà che avverte vibrare in quelle cifre spoglie le presenze di padri e madri, nonni e nonne, zii e zie, sorelle, fratelli, amici. E al loro ultimo respiro dedica un verso avvolto in un fazzoletto, legato con lo spago a un fiore di marzo.

Sul versante opposto di questo mare doloroso, all’ultimo rigo di un dialogo continuo tra i sommersi e i salvati (si legga anche l’intensa “Voi sconosciuti”) c’è l’approdo della nuova famiglia e della Romagna, la regione in cui Dolores vive e lavora come giornalista.
La vita gronda anche di gioia, fa capriole nei versi per l’uomo amato, si scioglie in carezze silenziose per i figli addormentati, indugia sui sentimenti che la poeta prova per loro, a lungo. In questa sezione della raccolta si raccoglie e celebra la pazienza dei giorni, la prontezza delle risposte, il mistero della vita che si fa chiaro, lo sciogliersi della languida catena che lega i vivi ai morti e la scoperta, nella forza della maternità, di essere ponte tra nonni che se ne vanno e nipoti che vengono.
Sull’altalena
Si leva l’essere figlia
Si china l’essere madre
Non ho che le mie parole
Per sentire che qualcosa sono
[…] un giorno su un cuscino di parole
Mi distenderò

E se pure persiste la sensibilità per l’orrore e la capacità di indagarlo (Mi capita di notte di intuire le viscere. Le rifuggo.) la poetica a cui è approdata Dolores preferisce la vita che si ostina e benedice nonostante i lutti, gli addii, i mai più.
In quello che potrebbe apparire, secondo la definizione di Attilio Bertolucci, “un libro di casa” Dolores ci confessa invece non i propri appunti di diario, ma la quiete per una rivelazione che è finalmente arrivata, nata dallo scontro quotidiano tra ciò che si è perso e ciò che si è trovato. Un’epifania che pare alla fine dire: sì, sono orfana di padre, di madre, di mare, ma sposa di un cielo, fatta di pace per partorire stelle.