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Due parole sul Futurismo in Sicilia. Potrebbe sembrare che le grandi correnti artistiche o letterarie siano stati fenomeni spesso distanti dal territorio ragusano, così periferico da tutto, isola nell’isola. Eppure non è stato così. Anche il futurismo riuscì a lambirci, addirittura nella sua prima ora e, più in generale, interessò la Sicilia molto più di quanto si possa pensare.
Andrea G.G. Parasiliti, chiaramontano, tra i più attenti studiosi contemporanei di ‘futurismo’, ne fa un affresco inedito ed originale. Buona lettura!

Dal 13 maggio al 15 ottobre 2022, a Ragusa nella chiesa della Badia, sarà visitabile una tela del San Giovanni Battista giacente con altri 4 quadri seicenteschi provenienti da collezioni private; il piatto forte è il dipinto che dà titolo alla mostra, da qualcuno attribuito a Michelangelo Merisi da Caravaggio. La mostra è stata allestita l’anno scorso al Museo d’arte sacra di Camaiore e sembra che preveda altre tappe. Su questo dipinto, che dai curatori verrebbe identificato come uno dei tre quadri che il Caravaggio aveva con se poco prima di morire a Porto Ercole, molte sono le ombre sull’attribuzione. Lo stato del dipinto poi, molto provato dal tempo, non fuga i dubbi ma li accresce.
Il percorso umano ed artistico del Caravaggio si è nutrito di chiaroscuri e il catalogo delle sue opere ne è pienamente immerso. Con ritrovamenti ‘eclatanti’, attribuzioni contrastanti, copie di incerta filologia.
Una faccenda intricata e un dipinto che intriga.
Sull’una e sull’altro abbiamo chiesto, un breve intervento, allo storico dell’arte Paolo Giansiracusa.

di Paolo Giansiracusa

Nell’ultimo triste passaggio del Caravaggio da Napoli a Palo si inseriscono tre dipinti di medie dimensioni raffiguranti la Maddalena e il Battista. Una delle due tele raffiguranti San Giovanni confluì nella Collezione del Cardinale Scipione Borghese (committente delle tre opere), l’altra fu portata nella dimora napoletana di Cellammare della Marchesa di Caravaggio. La prima fa ancora parte della ricca collezione Borghese, la seconda, attraverso vari passaggi, giunse forse in Spagna e poi in Perù. Nient’altro si sa di certo dell’opera e nessuno può affermare che essa fosse quella riguardante il Battista disteso attualmente conservata in una collezione di Monaco di Baviera.

Il San Giovanni Battista disteso conservato in una collezione di Monaco di Baviera (foto da Wikipedia)

Tuttavia, poiché i gialli piacciono a molti estimatori del Merisi, si è trovato comodo identificare una delle tre opere bloccate a Palo con quella di Monaco. Si tratta di un San Giovanni Battista disteso per il quale solo qualche storico dell’arte ha azzardato l’ipotesi che potesse essere un dipinto originale del Caravaggio. Adesso, non senza sorpresa, di quel dipinto discutibile custodito in Germania circola una replica, forse anche seicentesca, forse composta con gli stessi colori in uso nell’ambiente dei caravaggeschi, forse vicina ai temi e alle strutture compositive del Caravaggio ma… del Merisi non ha nulla, nemmeno una pennellata. Si tratta di un’opera che, senza nessun apprezzamento critico, è stata recentemente esposta a Camaiore e forse in altre sedi. Adesso è in Sicilia, a Ragusa, per celebrare il Caravaggio. Mi domando perché e su quali presupposti si basa l’accostamento al celebre pittore milanese?

Il quadro del Battista disteso, da oggi esposto a Ragusa. Qui in esposizione a Camaiore

Senza voler sminuire il valore culturale dell’evento, per il ruolo e la responsabilità che ricopro nell’ambito storico-artistico, credo sia opportuno parlarne. E’ sotto gli occhi di tutti (non c’è bisogno di essere storici dell’arte o esperti d’arte) che la figurazione del dipinto è appannata; forse un restauro discutibile ne ha offuscato la materia pittorica? L’anatomia presenta non pochi errori; è probabile che il copista non abbia mai visto dal vivo l’originale perduto. I colpi di luce sono troppo taglienti, senza armonia tonale e forse qualche ridipintura aggrava l’effetto visivo. Io, per mia colpa, non conosco quali siano le ragioni storiche, critiche, culturali… che hanno creato l’attenzione del grande pubblico intorno a quest’opera che giudico mediocre e fuori dall’ambito della pittura del Caravaggio e dei caravaggeschi.

Il S. Giovanni Battista della Galleria Borghese a Roma (foto Wikipedia)

Si guardi il profilo ridotto ad una maschera senza volume, si osservi la mancanza di plasticità del volto e l’assenza della benché minima vibrazione dell’incarnato. Tutto sembra improvvisato e stanco: l’occhio con quel taglietto incerto, senza espressività; i piedi annegati nel buio; il mantello rosso ridotto ad un drappo invadente, senza alcuna complicità compositiva.

La tela del Battista disteso, attribuita, tra mille polemiche, al Caravaggio. (Malta coll. privata – fonte Finestre sull’Arte)

Forse troppe fole si sono alzate su una traccia esilissima e altre se ne alzeranno senza tuttavia aggiungere nulla di utile alla migliore conoscenza della triste avventura degli ultimi giorni del Caravaggio.

Paolo Giansiracusa, storico dell’Arte, è docente Universitario ordinario. E’ stato componente del Consiglio Regionale dei Beni Culturali della Regione Siciliana, nell’ambito del quale si è occupato di Spettacolo, Cultura, Beni Storico Artistici, Architettonici e Archeologici. Impegnato attivamente nella ricerca e promozione dell’arte e cultura siciliana, dirige i Quaderni del Mediterraneo, collana di studi e ricerche sui Beni Culturali Italiani.
Tra le numerose pubblicazioni, citiamo alcune sul Caravaggio: Michelangelo da Caravaggio, 2011; Caravaggio a Siracusa 1608, 2017 e Il Seppellimento di Santa Lucia, 2018.

di Giusi Pizzo

Nella giornata nazionale contro la violenza sulle donne ricordiamo uno dei delitti più crudeli della storia. Non vuole essere un’indignazione postuma, ma una pacifica provocazione fuori tempo, tesa ad evidenziare che sensibilizzazione, educazione e condanna non devono confinarsi nello spazio di un canonico cool day, pena l’irrilevanza e il non-senso di una fra le tante celebrazioni con cui il patriarcato imperante mette a tacere la coscienza.

Personaggi:

  • San Cirillo d’Alessandria, vescovo ambizioso, il mandante
  • Ipazia d’Alessandria, figlia di Teone, filosofa libera, la vittima
  • Oreste, prefetto romano, il politico, allievo di Ipazia
  • I ‘parabolani’ o ‘parabalani’, bande di monaci fanatici, provenienti dal deserto di Nitria
  • Edesio, funzionario imperiale che insabbia l’inchiesta
  • Le passioni umane: l’invidia, l’ambizione, la corruzione, la sete di potere
  • – Infine, la Misoginia

Il tempo della vicenda è il V secolo dopo Cristo; il luogo, Alessandria d’Egitto.
Mentre l’Impero romano d’Occidente si appresta ad esalare l’ultimo respiro sotto i colpi dei barbari del Nord, il più longevo Oriente bizantino si dibatte tra le dispute sulla natura di Cristo e la guerriglia cittadina tra cristiani e pagani. Tutto ha le sembianze e la sostanza di una lotta per il potere.

Lo sfondo culturale è quello del platonismo: in Oriente, le controversie filosofiche e teologiche, sono tutt’uno con le questioni politiche ed imperiali. Filosofi e teologi muovono le masse che si azzuffano nelle piazze per il nome di Maria o per la natura umana o divina del Figlio. E la guerra si combatte a colpi di Concilio, ad Efeso e a Calcedonia: niceni contro ariani, nestoriani contro monofisiti, siriani contro alessandrini.L’epilogo della nostra storia, però, si colloca nel 415. Lei è Ipazia, ha 45 anni ( vecchia, per quei tempi), cultrice del cielo, matematica, filosofa pagana.  Il suo nemico è Cirillo, vescovo cristiano di Alessandria. A proposito di quei giornalisti che scrivendo dell’omicidio di una donna, usano espressioni veicolanti concetti come: ‘uccisa dal marito… ma voleva separarsi’, oppure ‘bruciata viva dal fidanzato… ma lui l’amava’, anche nel nostro caso qualche antenato dei cronisti odierni, a discolpa del Santo, ha  tentato addirittura di far scrivere ad Ipazia, molti anni dopo la sua morte e in latino, per giunta, una lettera in cui la filosofa confermerebbe la sua turpe natura di eretica nestoriana, nel tentativo di giustificare l’omicidio! Lo chiamano ‘victim blaming’, in lingua barbara.

Torniamo alla donna Ipazia. Uno scrittore bizantino del X secolo, descrivendola, usa l’espressione ‘sphodra kale te ousa kai eueides’, cioè ‘straordinariamente seducente e bella d’aspetto’. E possiamo pure tentare di immaginarla mentre, avvolta nel suo mantello e coi capelli raccolti, attraversa la piazza per recarsi presso la Biblioteca o il Museo, dove tiene le sue lezioni nella scuola platonica di Alessandria. Una maestra d’alto rango, certo, se Sinesio di Cirene, suo allievo, in una lettera le chiede: ‘Che cosa può mai esserci in comune tra il popolo e la filosofia?’

Il cielo, la luna, il sole, il movimento degli astri, i cerchi perfetti, sono i sogni che l’hanno nutrita, fin da bambina. ‘Edizione riveduta da mia figlia, la filosofa Ipazia’ scrive Teone all’interno del suo commento al terzo libro dell’Almagesto di Tolomeo. ‘Versata nella geometria’, scrive Damascio; ‘inventrice di un astrolabio, di un idroscopio e di un aerometro’, ci informa Sinesio.

Studiosa e scienziata, dunque. Elevata e acuta, come evoca il suo nome, ‘arrivata ad un tale vertice di sapienza da superare di gran lunga tutti i filosofi della sua cerchia’ (Socrate Scolastico). E supera anche il suo maestro, il padre Teone, divenendo ‘maestra di molti nelle scienze matematiche’ (Filostorgio). Da lontano vengono ad ascoltare le sue lezioni e la sua eloquenza incantatrice. Ma Ipazia è pagana e ha la sorte di vivere il tempo in cui il cristianesimo, da fede perseguitata, diviene religione di stato.Ora sono gli adoratori di statue a pagare con la morte la fedeltà al culto degli dèi e le stanze del Serapeo, ancora per poco, sono l’unico rifugio sacro che contiene la sapienza astronomica orientale. Ancora per poco, la voce di Ipazia risuonerà tra i colonnati della scuola, mentre parla di eros platonico o mentre spiega all’allievo di lei invaghito, quanto in realtà sia imperfetto il suo oggetto d’amore, cioè lei stessa.

Diretta e franca nel parlare, a tratti impudente, non ha paura di ‘apparire alle riunioni degli uomini’ o di discutere con i potenti. La sua educazione ellenica la spinge all’impegno pubblico e alla pratica del dialogo, come un intellettuale greco della vecchia e gloriosa polis. Ancora per poco. Sì, perché l’invidia degli dei è dietro l’angolo.

Tra le strade di Alessandria si consuma la strategia di Cirillo per la conquista del potere, persecutoria delle tradizioni pagane ed ebree del vecchio mondo. E quando il prefetto Oreste, allievo di Ipazia, invia un messaggero a Costantinopoli per denunciare il pogrom del vescovo cristiano contro gli Ebrei, Cirillo dà inizio alla sua guerra personale contro Oreste e i suoi amici.

Oreste è cristiano, cristiano come un uomo concreto e realista che si adatta ai tempi, come un politico, non è fanatico. Fanatico è invece Ammonio, capo dei ‘parabalani’, che le fonti descrivono come monaci rozzi, provenienti dal deserto, che hanno abbandonato la vita eremitica divenendo violenti e sovversivi.

‘Esseri abominevoli, vere bestie’, reclutati come milizie da Cirillo. Così Ammonio si scaglia contro Oreste ferendolo durante un agguato. Ammonio paga con la vita l’affronto al prefetto romano. A Costantinopoli giunge il rapporto sull’accaduto, scritto da Oreste; ma anche Cirillo invia la sua versione dei fatti alla cristiana Pulcheria (anche lei futura santa), che regna per conto del fratello, erede al trono ma ancora minorenne. La guerra è ormai in atto e la posta in gioco è il potere: la nuova fede deve vincere sulle antiche tradizioni.

Un dramma sotterraneo e ancor più bruciante, però, scorre dentro i solchi dell’invidia di Cirillo per Ipazia, donna libera e sapiente. Un giorno Cirillo gira la lama dentro la ferita mentre passa davanti alla casa di Ipazia e vede la folla di gente che aspetta per parlarle. Vorrebbe abitare quella casa, vorrebbe avere attorno quella moltitudine adorante di gente comune e di uomini delle istituzioni che, seppur divenuti cristiani, sentono di appartenere ancora a quel mondo aristocratico e libero che discute nell’agorà.

Si morde l’anima col veleno, Cirillo. E inizia a percorrere la strada del ‘più empio di tutti gli assassìni’. D’altronde è facile incontrarla per strada, Ipazia. E’ una donna libera, rispettata dai suoi concittadini, e torna a casa dopo una delle sue pubbliche lezioni. Una folla di ‘parabalani’ la trascina fuori dal carro, la porta nel Cesareo, la denuda e la massacra. Le cavano gli occhi, la fanno a brandelli e ne bruciano i pezzi. Molte sono le testimonianze e le descrizioni dello scempio che i monaci fanno del corpo della filosofa.

Qual è la colpa di Ipazia? Ipnotizza i suoi studenti con la magia e con la scienza degli astri! S. Paolo, poi, aveva scritto: tacciano le donne in assemblea! Ipazia è pagana, libera e strega.
‘E’ stata fatta tacere l’Egizia’, dice Cirillo durante la sua omelia.
Costantinopoli invia un funzionario, Edesio, che, corrotto, insabbia l’inchiesta. Cirillo è assolto.

Nel 1882, papa Leone XIII, lo proclama ‘Dottore della Chiesa’. Assolto, per la seconda volta.  Benedetto XVI, nel 2007, durante un’udienza a lui dedicata, lo chiama ‘instancabile e fermo testimone di Gesù Cristo… Verbo di Dio incarnato’.  Assolto, per la terza volta.

Papa Leone XIII

Ipazia, mai dimenticata dai poeti e dai liberi pensatori, invece brilla di luce propria, come faro del libero pensiero. Tra le costellazioni che i suoi occhi affamati d’infinito divorarono con l’ardore di giovane donna innamorata del sapere, emana ancora il suo lungo bagliore.
Anche le favole nere hanno una loro morale: il consolidamento del potere maschile passa per il depotenziamento della donna e la sua estromissione dalla sfera pubblica. 

Per le citazioni e le fonti si cfr. il testo di Silvia Ronchey, Ipazia la vera storia, ed. Bur, Milano 2010

di Giuseppe Cultrera

Nel 1986 Leonardo Sciascia fu ospite a Chiaramonte per alcuni giorni. A fine agosto quando ricevette il Premio ‘Ulivo d’argento’, assieme a Piero Guccione, Giuseppe Leone e il maestro Giovanni De Vita, e ad inizio dicembre per partecipare e presiedere il Convegno nazionale di studi sullo scrittore Serafino Amabile Guastella (Chiaramonte 1819 – 1899). Ma era già venuto, saltuariamente, con gli amici ragusani ad apprezzare la buona cucina del ristorante Majore.

1986. Premiazione dell’Ulivo d’Argento’. Da sinistra: Leonardo Sciascia, Giuseppe Leone, il presentatore Nuccio Costa, Giovanni De Vita, Miko Magistro e Piero Guccione

Una giornata alla Noce. In autunno ebbi la ventura di incontrare Sciascia nella casa di villeggiatura di contrada Noce a Racalmuto. Eravamo in quattro: il fotografo Giuseppe Leone, il pittore Piero Guccione, lo scrittore Gesualdo Bufalino ed io – in quanto più giovane e diretto interessato all’incontro – alla guida della mia Uno bianca. Qualche giorno prima Leone mi aveva comunicato che la domenica successiva gli amici ragusani si sarebbero recati a Racalmuto e che io potevo aggregarmi, perché Sciascia aveva chiesto di vedermi per mettere a punto l’organizzazione del convegno sul Guastella, previsto per gli inizi di dicembre.

1986. (da sinistra) Il Sindaco Rosso, l’assessore Gurrieri, Sciascia, la moglie Maria e il giovane Giuseppe Cultrera (in fondo)

Due ricordi in particolare ho di quella giornata.
Nel soggiorno, seduto accanto al camino, Sciascia che estrae da una pila di libri – tutte opere sue, comprese diverse traduzioni in varie lingue – quattro copie del suo ultimo volumetto edito dalla Adelphi ‘1912+1’ fresco di stampa e ce ne regala una copia ciascuno con dedica autografa e correzione, in diretta, di un lieve refuso (a pagina 59). Lo conservo ancora, gelosamente, assieme alla bottiglia del suo vino Regalpetra, regalo della signora Maria.

Secondo. A pranzo, mentre estraeva dal camino la salsiccia arrostita e la serviva agli ospiti (ho poi letto che era sua abitudine partecipare attivamente alla preparazione dei pasti), era in corso un discorso sulla vicenda Tortora e sull’impegnativa battaglia condotta, in appoggio, da Marco Pannella. Occupò buona parte del pranzo, il discorso. Quando intervenne Sciascia con voce pacata disse “di Pannella dovrebbe essercene uno per ogni nazione”. Sorrise, l’eterna sigaretta fra le dita accesa, e aggiunse “però, non più di uno”.

Marco Pannella e Leonardo Sciascia

A distanza di tempo mi appare nitida la postura, l’inflessione della voce, lo sguardo ironico: come il significato della battuta, né compiaciuta né indulgente. Sintesi della sua grande stima per l’umanità e la vivace dialettica del grande politico radicale. Anche in questo caso aveva visto lontano, oltre il ‘contesto’ del momento ed i conformismi imperanti.

La presidenza del convegno. Accettò volentieri la presidenza del convegno e fu attivamente presente in tutta l’organizzazione preparatoria e nelle tre sessioni del 6/8 dicembre. Guastella, lo disse nella sua relazione e nelle interviste, era un autore che lo incuriosiva: per lo stile e per le tematiche.

Si interessò personalmente ad invitare eminenti esponenti della cultura. Pubblicò sul ‘Corriere della Sera’, il suo intervento (una intera pagina, compreso un pezzo di Matteo Collura); e qualche giorno dopo rilasciò una intervista, a RAI 3, in cui promuoveva la nostra cittadina e dava notizia del convegno. Ma specialmente, ripropose la pubblicazione delle opere del barone dei Villani. Era il prosieguo di un progetto culturale iniziato con la pubblicazione, nella collana edita dalla Regione Sicilia nel 1973, di due opere ‘L’antico Carnevale’ (introduzione di Natale Tedesco) e ‘Le parità e le storie morali dei nostri villani’ (introduzione di Italo Calvino).

Progetto che aveva ribadito durante il Convegno e che trovo confermato in una testimonianza di Salvatore Silvano Nigro (in ‘La memoria di Elvira’, Sellerio 2015; pagina 124).

Il 9 agosto 1986 Leonardo Sciascia mi aveva scritto da Racalmuto: «Cè un convegno a Chiaramonte Gulfi. Io ci sarò tra il 21 e il 24 di questo mese. Spero ti abbiano invitato (me ne accerterò oggi): chè mi piacerebbe incontrarti, e tornare con te sull’idea di ripubblicare le cose migliori – se non tutte – del Guastella.

Il programma del convegno su S. A. Guastella

Sciascia aveva progettato per la casa editrice Sellerio una riedizione delle opere di Serafino Amabile Guastella. Riteneva lo scrittore ottocentesco vicino alle qualità narrative di Verga, soprattutto per quelle ‘Parità’ che avevano convinto anche Italo Calvino. Sciascia voleva che fossi io a curare l’edizione. Si opponeva Elvira Sellerio. Ne nacque uno scontro imbarazzante, che durò mesi.»

Ma la scomparsa di Sciascia eclissò il progetto dell’opera omnia del Guastella.

Sciascia a colloquio con il Gesuita Padre Cultrera, dietro gli assessori Giallongo e Castagna

Il clic impuro. Tra le manifestazioni collaterali c’era la mostra fotografica ‘Il mondo del Guastella nelle parità fotografiche del tempo’, da lastre di fine ottocento – inizi novecento scoperte da Bufalino e ristampate da Giuseppe Leone. Erano materiali di vari fotografi dilettanti iblei, per lo più nobili, come il barone Carmelo Arezzi di Trifiletti nel cui inedito corpus, erano presenti alcune lastre di soggetto erotico. Mentre allestivamo la mostra qualcuno certamente sbirciò, ne parlò a qualche altro benpensante e la cosa approdò al Sindaco. Che ce ne rese partecipi: era saggio esporre quelle ‘scandalose’ foto? Bufalino era perplesso, un pò meno Leone. Alla fine si convenne di sospendere la cosa e sottoporla a Sciascia che sarebbe arrivato di lì a poco.

Giunse col suo immancabile bastone e sigaretta, ascoltò il sindaco e noi, poi visionò quella sezione della mostra e con pacatezza disse di non trovarci nulla di ‘scandaloso’. Erano foto artistiche, opera di un colto rampollo della nobiltà ragusana, forse pure alunno del Guastella (come avrebbe ipotizzato poi Bufalino nella sua relazione): goliardia tutt’al più, non pornografia.

Sciascia alla mostra fotografica ‘Il mondo del Guastella nelle parità fotografiche del tempo’

Le foto restarono esposte al pubblico (unica accortezza: furono confinate in una stanza singola). L’inviata di ‘Epoca’ ci fece un bell’articolo; Bufalino un testo affabulatorio e intrigante: ‘Il clic impuro’, pubblicato con una scelta delle foto sulla rivista ‘Laboratorio’ e poi in ‘La luce e il lutto’ (Sellerio, 1988) e nella riedizione de ‘Il tempo in posa’ (Sellerio, 1992).

1986. Sciascia a passeggio a Chiaramonte. (da sinistra) il prof. A. Di Grado, L. Sciascia, N. Tedesco e G. Cultrera (Ph Giuseppe Leone)

Link al primo contributo su Sciascia a cura di Tony Vasile – intervista video a Giuseppe Leone

Link al secondo contributo su Sciascia di Grazia Dormiente

Link al terzo contributo su Sciascia a cura di Giulia Cultrera – intervista a Carlo Ottaviano

di Nunzio Spina

Accorrevano da tutta Europa alla Contea di Modica, in quella prima metà del ‘700. Cavalieri, Principi, Re. Persino Giuseppe I d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, pare si fosse lasciato attrarre dalle virtù del più fulgido tra i feudi della Sicilia. Chissà se ad accogliere i visitatori – e a inebriarne i sensi – ci fossero già anche i lingotti della prelibata ‘ciucculatta muricana’, oltre agli incanti della natura e dei monumenti; ma il fatto era che molti, di quei gentiluomini, si trovavano praticamente costretti a scendere in incognito, e quindi a rinunciare a tanto ben di Dio. Altro che viaggio di piacere; venivano a curarsi la sifilide, il male e la vergogna del secolo!

Il vecchio sifilicomio ‘Campailla’ di Modica. Oggi sede del Museo della Medicina

Eh sì. La Contea, in quegli anni, aveva acquisito notorietà anche in campo sanitario, per quanto si trattasse di un ambito della medicina che richiedeva il massimo riserbo. E il merito di questo successo, guarda caso, apparteneva a un uomo che faceva proprio della ritrosia la sua caratteristica, nell’ombra e nel silenzio degli ambienti che frequentava.

Cagionevole di salute, poco avvezzo alla vita sociale, se ne stava chiuso a studiare per ore, divorava tutti i libri che gli capitavano tra le mani, poi si adoperava a mettere in pratica ciò che aveva appreso da autodidatta. Così nella filosofia, come nella letteratura o nelle scienze; indifferentemente. Fin quando – a furia di osservare e sperimentare – trovò un metodo che potesse funzionare nella cura della sifilide, e un dispositivo in cui applicarlo: la botte.

Tommaso Campailla

Il protagonista di questa sorta di magia si chiamava Tommaso Campailla, un nome che la storia modicana avrebbe accolto tra quelli dei suoi uomini illustri. Aristocratico anch’egli – grazie al diploma nobiliare concesso alla famiglia dall’imperatore Carlo V, a metà del Cinquecento – era nato il 6 aprile del 1668, proprio nel centro di Modica.

Ancora ragazzino, era stato spedito in campagna dal padre, preoccupato più del suo sviluppo fisico che di quello intellettuale; Tommaso dovette così attendere i sedici anni di età per dare sfogo alla sua naturale inclinazione, libero di trasferirsi a Catania per studiare Giurisprudenza. Evasione breve e illusoria.

Palazzo Campailla a Modica

La morte del padre – dal quale ereditava un buon patrimonio – lo riportò presto nella sua Modica. Non più scuola, e neanche scorribande per i campi; tra le mura domestiche, e tutt’al più all’interno dei confini della città, sarebbe rimasto per tutta la vita.

La filosofia fu il suo primo amore, rincorrendo i princìpi di Cartesio; poi si rivolse alla letteratura, e nel mettere insieme nozioni dell’una e dell’altra vennero fuori poemi filosofici; tra cui ‘L’Adamo’ (dedicato all’uomo primordiale), pubblicato in due parti, nel 1709 e nel 1723, più volte ristampato anche fuori dalla Sicilia, laddove lui non si spingeva mai. Se mai erano gli altri a raggiungerlo, mossi dalla curiosità di conoscerlo e di dialogare, come fece una volta il filosofo irlandese George Berkeley; o come avrebbero volentieri fatto alcuni appassionati di psicologia, per sentire dalla sua viva voce – che a quanto pare balbettava un po’ – le teorie sul rapporto tra comportamenti e sogni, che anticipavano di secoli quelle di Sigmund Freud.

‘L’Adamo’, poema filosofico di Tommaso Campailla dedicato all’uomo primordiale

Il passaggio alle scienze avvenne in maniera alquanto disinvolta, anche perché i suoi metodi di indagine, in assenza di una impostazione scolastica, scivolavano sul terreno di un certo empirismo. Il che comunque non gli impediva di essere concreto, affidandosi per esempio all’osservazione al microscopio di tessuti biologici. A spingerlo poi nell’intricato campo della medicina – dove finì col muoversi a suo piacimento – fu soprattutto il bisogno di curare i propri malanni, procurandosi da solo i rimedi che potessero risultare efficaci.

Una delle stanze del Museo Medico ‘Tommaso Campailla’ di Modica

Fu così che, cercando medicamenti che alleviassero in qualche modo dolori e scricchiolii del suo apparato scheletrico, cominciò ad impratichirsi nell’utilizzo del mercurio, sostanza già nota per la sua azione benefica in vari stati patologici. C’era la sifilide tra questi: se la trovò davanti con la sua sagoma spettrale, e decise di sfidarla, stavolta per il bene di tutti.

Malattia infettiva a prevalente trasmissione venerea, la sifilide (o lue) aveva già da tempo seminato il terrore tra varie popolazioni: per la sua gravità, per la mancanza di adeguate terapie e, non ultima, per la maniera assolutamente immorale con la quale veniva contratta. Una infamia da nascondere, agli occhi della società; un vero e proprio castigo di Dio, per chi credeva a certe superstizioni.

Altra stanza del Museo Medico

La tesi secondo cui sarebbero stati i marinai di Cristoforo Colombo a trasportarla in Europa, al ritorno dalle Americhe, non ha mai avuto piena conferma. Di certo, i rapporti sessuali con partner sconosciuti, e con poca osservanza dell’igiene, stavano alla base del contagio.

La prima vera epidemia si era sviluppata in seguito alla occupazione di Napoli, nel 1495, da parte del Re francese Carlo VIII, le cui truppe erano composte per lo più da mercenari senza ritegno; i quali, incapaci di resistere a certi istinti, avevano permesso al treponema pallidum – l’agente eziologico della malattia – di penetrare nel loro organismo, spargendolo poi lungo la strada di risalita in tutta Italia, e da qui in tutta Europa. La definizione iniziale di ‘mal francese’ (o di ‘mal gallico’) era sembrata a tutti ovvia e priva di malizia; tranne ai francesi – e ti pareva – che dal loro punto di vista si sentivano piuttosto vittime del ‘mal napolitaine’.

Carlo VIII Re di Francia entra a Napoli (1495)

Di ‘metodo francese’, tuttavia, si parlava, riferendosi a quello universalmente più utilizzato nella terapia della sifilide, che si avvaleva delle cosiddette stufe mercuriali. Si trattava di una sorta di capsula all’interno della quale veniva rinchiuso il paziente, seduto su uno sgabello, testa fuori; nel braciere della stufa veniva versato il cinabro (minerale contenente solfuro di mercurio), che per sublimazione faceva esalare vapori del principio attivo, assorbiti dalla pelle in piena sudorazione.

Particolare di un’antica stampa raffigurante una ‘botte’ per la cura della sifilide

Qualche effetto benefico c’era; ma, per bene che andasse, il mercurio così introdotto si limitava a fare regredire i sifilomi, cioè le tipiche lesioni cutanee, mentre del tutto inutile si rivelava nel caso in cui la malattia avesse già superato anche solo il primo dei quattro stadi nei quali poteva manifestarsi, invadendo organi e apparati.

La trovata di Campailla – geniale nella sua apparente semplicità – fece compiere un importante passo avanti in questo tipo di trattamento. Il riflessivo Tommaso pensò a come rendere anche inalabili quei vapori di mercurio, favorendone in tal modo l’assorbimento attraverso l’apparato respiratorio: bastava aggiungere l’incenso nel braciere, così da stemperare e ridurre la tossicità.

vecchia boccetta di medicamento a base di mercurio

A quel punto, pure la testa del paziente poteva stare chiusa all’interno, il che comportava una modifica nella struttura e nella forma di quelle camere: eliminata l’ampia apertura superiore, si lasciavano solo due piccoli fori alle estremità. Così fatte, somigliavano proprio a delle botti!
Sono ancora là a fare bella mostra di loro, le ‘botti’ del Campailla; a Modica, nella centralissima Via Roma, presso i locali del vecchio Ospedale Santa Maria della Pietà.

L’ex ospedale Campailla, oggi sede del Museo della Medicina

Li custodisce un Museo della Medicina, dove si può ammirare anche un teatro anatomico, uno studio medico, una esposizione di antichi strumenti operatori. Nella cosiddetta Stanza delle botti, l’atmosfera del passato si carica di suggestione, fino a poter creare anche un certo turbamento. Eccoli, questi camerini in legno, con copertura a volta, una porticina d’accesso; larghi 80 cm, alti 1 metro e 34, appena sufficienti a dare spazio a un paziente, che se ne stava là seduto dai dieci ai venti minuti, a seconda dello stadio della sua malattia.

La stanza delle ‘botti’ di Campailla per curare la sifilide

Tommaso cominciò a sperimentare le sue botti dal 1698, ancora trentenne; forse fu il primo a stupirsi dei risultati vantaggiosi che si ottenevano, e che spesso portavano a vere e proprie guarigioni nella sifilide. Si narra di individui in stato di cachessia, che dopo essersi più volte rinchiusi nella botte ne uscivano rinvigoriti, nel fisico e nel morale; facile, a quel tempo, gridare al miracolo. Il tam tam del passaparola – seppure sussurrato con discrezione – sparse ben presto la voce oltre i confini, della Sicilia e della Penisola, raggiungendo i vari stati dell’Europa.

stampa di una malata di sifilide

Così Modica, capoluogo della contea omonima, diventò meta di segreto pellegrinaggio da parte di quei nobili e cavalieri che, oltre alla ripugnante malattia, avevano anche un’onta da cancellare.
Non fu una gloria effimera. Le Botti del Campailla trovarono seguaci e ampi consensi. Dopo che a Modica l’Ospedale Santa Maria della Pietà venne convertito (termine quanto mai attuale!) nel Sifilicomio Campailla (poi divenuto Ospedale Campailla), a Palermo fu istituito un Sanatorio Campailla, a Roma si costruì una Botte di Modica, a Milano si utilizzarono botti di vetro di simile concezione. La stessa Parigi – capitale del ‘metodo francese’ – accettò la novità ‘siciliana’, riservando appositi stabilimenti, e allargando il campo di impiego anche alle malattie reumatiche e neurologiche.

La Contea di Modica nel XVIII secolo

Il progresso, ovviamente, era destinato a relegare il contributo di Campailla in un angolo della storia. Sarebbe stato poi messo al bando un tale utilizzo del mercurio, a causa del suo effetto cancerogeno, che lui di certo non poteva conoscere. Così come non poteva immaginare che sarebbe arrivata un giorno – ma di anni ne dovettero trascorrere duecentocinquanta – una muffa chiamata penicillina, in grado di stanare i treponemi circolanti nel sangue delle persone affette da sifilide; malattia peraltro non ancora scomparsa.

Una vecchia boccetta di penicillina

Il buon Tommaso non avrebbe potuto fare di più. Era entrato solitario nel mondo della filosofia, della letteratura, delle scienze e della medicina; aveva raccolto insegnamenti e restituito frutti del suo ingegno creativo. Titoli di studio, nessuno; desiderio di conoscenza e voglia di rendersi utile al prossimo, in quantità esagerata. Tutto questo senza clamori; quasi senza apparire. La sua casa e la sua famiglia (moglie e figli) delimitavano lo spazio della sua quotidianità. Visse così fino alla fine dei suoi giorni, a 72 anni, nel 1740. Modica, da allora, si è ritrovato in mano un patrimonio da difendere. Al pari della prelibata cioccolata.

Nunzio Spina, 63 anni, è nato a Catania. Medico, giornalista collaboratore del quotidiano “La Sicilia”, si è specializzato in ortopedia a Milano. Ha poi esercitato la professione ospedaliera, prima a Ponte San Pietro (BG), poi ad Aosta e infine a Macerata, dove attualmente risiede con la famiglia. Da circa quindici anni si dedica, nel tempo libero, alla pubblicazione di libri e articoli sulla storia dell’ortopedia e sulla storia del basket, coniugando così la passione per la disciplina sportiva praticata negli anni catanesi.

di Antonio Incardona

Durante la prima metà dell’anno la domanda di gioielli si è quasi dimezzata a causa di una serie di fattori, tutti legati al Covid-19: chiusura delle gioiellerie, quarantena, aumento della disoccupazione, persino il crollo del turismo ha contribuito al calo delle vendite.

Tutto ciò ha però influito solo marginalmente sulla domanda globale di oro: l’industria dei gioielli, infatti, gioca un ruolo minoritario nel mercato del lingotto. Il più importante è quello dei paesi arabi produttori di petrolio, le cui banche centrali lo acquistano regolarmente. Ebbene, anche questo mercato è depresso, poiché la caduta della domanda energetica ha prosciugato le entrate in monete forti.
In realtà anche le banche centrali dei paesi ricchi, che acquistano oro per tenerlo nelle loro riserve, nella prima metà dell’anno si sono astenute dal fare shopping di lingotti. E così, secondo la banca internazionale HSBC, per la fine dell’anno la domanda globale di oro tradizionale, e cioè proveniente da questi investitori potrebbe essere meno della metà dello scorso anno.

Allora ci si domanda: perché il prezzo dell’oro è salito oltre i 2000 dollari l’oncia per poi stabilizzarsi a ridosso di questo valore? Cosa guida l’ascesa del metallo giallo?
La risposta va ricercata nel nuovo ruolo che svolge il lingotto, non più visto come bene rifugio durante le grandi crisi e sempre acquistato per brevi periodi (perché non produce interessi o dividendi), ma come investimento da tenere in portafoglio anche per periodi lunghi, in alternativa al dollaro. E così dall’inizio dell’anno il deprezzamento del dollaro ha spinto i fondi di investimento tradizionali ad acquistare oro facendo lievitare la domanda globale.
Un bel rischio dal momento che il lingotto non frutta nulla.

di Giovanni Calabrese

Il modo in cui sta degenerando sui ‘social’ l’argomento immigrati è a dir poco imbarazzante.
Potete essere contrari, potete essere favorevoli, ma non potete essere disumani!

Che ci sia un problema è evidente a tutti, che si capisca poco è ancora più evidente, che stiano morendo un sacco di persone è a dir poco agghiacciante.

E quindi la domanda è una sola: “ma cosa cavolo avete da ridere?”
Io vorrei capire il perché mettete l’emoticon della risata quando esce una notizia di vite umane spezzate in mare.

Ah vi fa ridere? Immagino, quindi, che quando muore un vostro parente a casa vostra ci sarà uno spettacolo di cabaret. Eh certo….
Poi siete anche i primi a fare partire le catene di Sant’Antonio di preghierine e Santini con i messaggini.
Ed invece poi che fate? Ridete se muore un bambino?

E qui, non si tratta di partiti politici, di essere di destra o di sinistra. Si tratta di essere stronzi. Stiamo parlando di essere umani non di bestie. È chiaro?
Fare campagna politica su quei poveri cadaveri…. che schifo!
Tutta la politica ha colpe, chi più chi meno, ma una menzione particolare va a tutta quella classe politica che fomenta l’odio.

Ma voi, signori, avete capito che la gente ride sulla morte delle persone?
Ma tanto dite… a noi che ce ne frega,  stiamo tranquilli a casa, nessuno ci disturba, tutto ci va giù come bere un sorso d’acqua.

Un consiglio….
Odiate di meno ed amate di più, che come insegna il 2020 oggi ci siete domani…. boh!

Illustrazione-banner di Eleonora Pepe

di Giuseppe Cultrera

foto 1

Nelle Passeggiate sotto le stelle degli anni passati hanno destato molto interesse le testimonianze ed i reperti di monumenti non più esistenti: la chiesa di S. Caterina, abbattuta nel 1954, le chiesette di S. Elisabetta e della Sacra famiglia, trasformate in abitazioni tra fine ottocento e inizi del novecento, le Logge di S. Vito e, la presenza più misteriosa, la chiesetta di S. Maria delle Stelle.
Dalla polvere del tempo riaffiorano immagini e documenti che brevemente voglio proporre. Partendo da una inedita foto di fine ottocento – inizi del novecento con un bel panorama di Chiaramonte (foto banner, sopra): nella parte centrale si intravede la chiesa di S. Vito con il prospetto affacciato sullo strapiombo della vallata, appena protetto da un robusto terrapieno, accanto il convento dei PP. Carmelitani( totalmente ristrutturato nel primo novecento come Opera pia  Rizza Rosso), sopra l’abside si intravede il vecchio campanile (demolito e ricostruito sul luogo della chiesetta di S. Maria delle Stelle) e infine – ma è quello che a  noi interessa – sul lato sinistro della chiesa un altro piccolo edificio sacro (foto 2).

foto 2

La grotta-chiesetta S. Maria delle Stelle sorgeva accanto alla chiesa di S. Vito, sul fianco nord dove il terreno degradava per effetto di una piccola forra, che nel periodo invernale conteneva le acque reflue del centro della città e quelle della sorgente scaturente dalla grotta trasformata in luogo di culto. Esistette fino agli inizi del ‘900, quando fu demolita e la sorgente “murata”, per aprire la strada per il Ferriero e far posto al nuovo campanile della chiesa di S. Vito. Frattanto la cava che esisteva alla sinistra veniva ricoperta con un terrapieno, che per il continuo scarico di materiale di risulta formò uno spiazzo sempre più ampio, fino al piazzale attuale (già parco Robinson, oggi campetto di calcio e sede del mercato settimanale).

La grande tela che era posta sull’altare della grotta fu allora trasferito nella chiesa di S. Elisabetta. Che, di lì a qualche anno, fu chiusa al culto ed abbandonata. Del quadro si persero le notizie. Nel 1985 ricevetti una lettera di un chiaramontano emigrato a Torino che si occupava d’antiquariato. Ed ecco ricomparire un pezzo di quella tela.

Il cav. La Terra (l’autore della lunga ed articolata lettera) raccontava che diversi anni prima trovandosi a Palermo presso il “mercato delle pulci” riconobbe una parte della tela di Maria SS. della Stella (perché il dipinto era stato sezionato e “venduto a trance”) esattamente la parte destra con l’effigie del patrono S. Vito: la comprò e la porto nella sua casa di Torino. E’ l’unica traccia di questo primitivo luogo di culto, con connotato popolare. 

foto 3

Com’era: «Contigua a questa chiesa (S. Vito) sorse la chiesetta di S. Maria delle Stelle, chiusa da più anni al culto – scrive nella sua pregevole Chiaramonte divota il Melfi – e con la neve e la pioggia del febbraio 1905 si demolì in gran parte. Fu eretta nel secolo XVII dietro che S. Vito fu eletto patrono e allo scopo di chiudere in essa grotta ove scaturisce una piccola sorgente di purissima acqua che usavasi bere dagli infermi. Vi fu eretto un solo altare a destra della quale è la grotta, e nel quadro, già trasportato in S. Elisabetta, si ammira la Vergine SS.ma con una stella codata nel braccio destro e nel sinistro sostiene il divin pargoletto. Ai due lati stanno a destra S. Vito, a sinistra S. Giuseppe e tre stelle sormontano la corona, sostenuta da due Angeli sul capo di Maria SS.ma.» (Melfi, Chiaramonte divota, pagina 75).

foto 4

Di recente ho avuto modo di consultare, presso l’archivio della Chiesa Madre, un registro di introiti ed esiti relativo a questo piccolo edificio sacro con note di pagamento dal 1705 al 1756. Un interessante reperto: dalle note di credito e di pagamento rivivono persone e momenti della prima metà del XVIII secolo, quando il culto era ancora particolarmente attivo e la presenza di un cappellano assicurava i precetti festivi ed un procuratore provvedeva alla conservazione della struttura e degli arredi sacri.

Il breve regesto di alcune note del Registro d’introito ed esito della Chiesa di Maria SS.ma delle Stelle  dal 15 agosto 1705 al 15 gennaio 1756 (foto 5), attesta la costruzione nel 1715 del piccolo campanile retrostante, la sistemazione dei tetti, la posa di “balate” per la pavimentazione e nel 1756 la sostituzione delle porte, l’acquisto di arredi sacri, la costruzione di una cassa in legno per contenere i materiali della chiesa (probabilmente l’umidità dell’ambiente, in parte aggrottato, consigliava tale premura); infine l’indoratura della “cornice del quadro di Maria SS.ma”. Si tratta di quello scomparso negli anni cinquanta e del quale il Laterra, antiquario in Torino, aveva acquistato il pezzo raffigurante S. Vito, al mercato delle pulci di Palermo.

Microstorie che adesso si incastrano, come tasselli di un domino, per diradare la nebbia che avvolgeva questa chiesa scomparsa da oltre un secolo.

foto 5