di Paolo Monello
Dopo la parentesi sulla sorte dei quadri dell’ultimo Conte di Modica, don Juan Tomás Enriquez, torniamo ai documenti da me posseduti in copia sui terremoti del 9 e 11 gennaio 1693 e provenienti dall’Archivio Generale di Simancas (Spagna). Ricordo che si tratta delle note spedite a Madrid dal viceré don Juan Francisco Pacheco Duca d’Uzeda e Conte di Montalban (1649-1718), in carica a Palermo dal 1687. Persona colta, amante della scienza e della musica, bibliofilo e collezionista di quadri ed altri oggetti preziosi. A mio avviso – alla luce della documentazione – fu l’uomo giusto al posto giusto in quel disgraziato periodo.

In genere, quando si parla della catastrofe sismica del gennaio 1693, si accenna solo all’evento dell’11 (a volte si dimentica il 9 e in genere si ignora che la sequenza mortale cominciò la sera del giovedì 8 gennaio) e poi si passa direttamente alla ricostruzione ed alla esaltazione del Barocco delle nostre zone. In verità, la ricostruzione fu assai lenta e durò decine di anni e solo alla fine del ‘700 la Sicilia sud orientale acquistò il volto che in gran parte oggi vediamo.
Nei documenti esaminati si parla invece dell’immediatezza della tragedia, quando le scosse di terremoto sembravano non finire mai e non si sapeva a qual Santo votarsi e come fare per placare l’”ira divina”, che si era abbattuta sui Siciliani ed in particolare sulla Chiesa siciliana per i loro peccati.

Già in precedenza ho accennato che le prime notizie del disastro arrivarono a Madrid da Napoli ai primi di marzo, mentre le relazioni ufficiali di Uzeda giunsero il 18 marzo e furono esaminate il 22 marzo dal Consiglio di Stato e l’indomani 23 dal Consiglio d’Italia. Si trattava di due lunghe missive, una datata 22 gennaio e l’altra 5 febbraio. Lette le note, il Consiglio di Stato riassunse per il re Carlo II il loro contenuto. Esse si riferivano agli eventi fino al 5 febbraio, e riguardavano le provvidenze assunte dal viceré: soccorsi immediati, ordini per la ricostruzione delle fortezze per la difesa del regno.

Il Duca di Uzeda, comprendendo di non potere da solo affrontare le infinite questioni che si stavano ponendo, comunicava di aver formato due Giunte, una di “secolari” (cioè di civili) ed una di ecclesiastici per garantire il Culto Divino ed avere consigli, di fronte all’immane disastro che aveva colpito centinaia tra chiese, conventi e monasteri che erano crollati o inagibili.
I Consiglieri approvarono l’operato del Viceré, mettendo in evidenza la gravità della situazione, sia dal punto di vista sanitario, sia da quello della difesa del Regno, per il timore che – appresa la distruzione delle fortificazioni di Augusta e Siracusa – i Francesi tentassero un colpo di mano. L’Isola infatti risultava completamente indifesa. La flotta siciliana formata di sei galere era in cattivo stato e per la manutenzione delle navi e per il pagamento degli equipaggi c’era un grave problema. Il mantenimento della flotta infatti era finanziato con i proventi della Bolla della Crociata (e cioè la vendita delle indulgenze, con la “remissione” dei peccati in cambio di denaro), affidata ad appaltatori che avevano anticipato grandi somme e per le quali pretendevano forti interessi.

In questa situazione di estremo pericolo, il Consiglio chiese al Re di ordinare l’invio di truppe di rinforzo in Sicilia e di disporre che le flotte di stanza nel Mare del Nord entrassero nel Mediterraneo, per accorrere in aiuto della Sicilia. Infine si affidava al Consiglio d’Italia il compito di assistere il viceré con le risorse necessarie.
Più dettagliato invece il verbale del Consiglio d’Italia, dove vengono riferite quasi integralmente le due lettere esaminate, a cominciare dalle scosse sentite a Palermo la notte del 9 (alle 10 di sera), senza gravi danni né a case e persone. Ma la domenica 11 alle 2 del pomeriggio si erano udite fortissime scosse, che avevano danneggiato o distrutto alcune case, senza però alcuna vittima, cosa attribuita subito alla protezione di Santa Rosalia. Il Palazzo Reale aveva però subito notevoli danni, con la fortuna che la Porta Nuova – dove erano custoditi 400 quintali di polvere – era rimasta intatta.

Gravi danni aveva subito anche il carcere della Vicaria. Le scosse si erano ripetute il mattino del lunedì, danneggiando gravemente l’appartamento del viceré, che aveva preferito dormire nella Galera Capitana e stare di giorno nei locali della Segreteria, per provvedere all’emergenza.
A questo si univano le tremende notizie che man mano erano arrivate al viceré da tutto il Regno e soprattutto dal Valdemone, dall’intero Val di Noto e dalla Contea di Modica, rimasti distrutti, con la morte sotto le rovine di numerosissime persone, il cui numero esatto non si sapeva, per l’impossibilità dei corrieri di viaggiare a causa del crollo dei ponti e dell’esondazione dei fiumi, per le grandi quantità di neve e piogge cadute. Si sapeva però che continuando le scosse di terremoto, le persone si erano rifugiate nelle campagne.

Come prima cosa, il Duca di Uzeda aveva nominato il generale Giuseppe Lanza, Duca di Camastra (uno dei protagonisti della guerra di Messina del 1674-78), Vicario Generale del Valdemone, con l’incarico soprattutto di arrivare prestissimo a Catania, che risultava la più colpita dal disastro e dove non era rimasta in piedi neanche una casa, secondo le notizie arrivate. Per il Val di Noto aveva nominato come Vicario Generale il Principe di Aragona (poi sostituito dall’arcivescovo di Siracusa), per Catania aveva nominato Commissario Generale don Giuseppe Asmundo (Giudice della Gran Corte), coadiuvato da don Giovanni Montalto (Giudice del Concistoro).
A questi aveva poi aggiunto per il Val di Noto il Tesoriere e Vicario Generale don Giuseppe Celesti, il Consultore don Matteo Giordano e don Scipione Coppola: a questi e poi anche a Camastra aveva dato il compito di seppellire i morti e di stroncare i furti e i saccheggi, usando le maniere forti necessarie e cioè la forca e le schioppettate.

Nonostante la situazione deficitaria del bilancio del Regno, Uzeda aveva inviato denaro per soccorrere le guarnigioni delle sventurate città, privilegiando soprattutto Catania, Siracusa ed Augusta e ordinando al Governatore di Messina di soccorrere per quanto potesse quelle piazzeforti, le cui truppe erano state decimate dai crolli e solo per caso ad Augusta – dove era esplosa una polveriera piccola – non era accaduta una tragedia maggiore, che sarebbe stata causata dall’esplosione della polveriera grande, dove erano stipati 1000 quintali di polvere.
Uzeda era assai preoccupato per le immense somme necessarie a ricostruire le fortificazioni e per l’impossibilità di far fronte alla spesa, e questo in tempo di guerra con i Francesi e la presenza nella rada di Siracusa di navi della flotta dei Cavalieri di San Giovanni di Malta, che certamente avrebbero avvisato i Francesi del disastro.

In ogni caso aveva incaricato il Colonnello don Carlos de Grunembergh ed il Maestro di Campo Generale don Sancho de Miranda di fare un accurato sopralluogo a Siracusa ed Augusta, per verificare i danni e per prendere immediate iniziative per la ricostruzione (ma anche rimpiazzare i soldati, in parte morti, in parte scappati, in parte rifugiatisi a Messina), pur mancando materiali e muratori. Il Viceré concludeva la prima lettera, scusandosi ancora una volta di essere rimasto a Palermo, per meglio controllare la situazione dell’ordine pubblico, perché era un miracolo che nonostante il crescente orrore per le notizie che man mano arrivavano, il popolo si manteneva tranquillo, senza furti né delitti.
Nella seconda lettera, il Duca di Uzeda dava informazioni più precise, per quello che aveva potuto sapere, allegando una prima relazione dei danni nelle Città demaniali e Baronali, senza però poter ancora comunicare il numero dei morti sia perché i cadaveri erano rimasti sotto le macerie sia anche perché migliaia di persone erano fuggite disperdendosi nelle campagne, dove abitavano in baracche (o sulle barche, come a Messina).

In alcuni casi, alcune bande di ladroni erano state fermate a schioppettate e con la forca ed un forte aiuto aveva dato a sue spese il Principe di Butera, che aveva prestato soccorso a 60 soldati e inviato ad Augusta e Siracusa farina, pane fresco e alcune vacche, dove poi era giunta una tartana con 200 salme di farina e 200 quintali di biscotto.
Aveva inoltre ordinato l’apertura della Zecca di Palermo, per coniare moneta, evitando che il bisogno di denaro costringesse i possessori di argento a impegnarlo o a mandarlo fuori dal Regno per farne monete. Per affrontare le conseguenze della catastrofe, aveva creato una Giunta composta dal Reggente don Juan Antonio Joppulo, dal Presidente don Joseph Scoma, dal Consultore don Antonio Ibañez, dal Controllore Generale marchese de Analista, dal suo Segretario don Felix de la Cruz, dal M.ro Razionale don Sebastian Gesino, dall’Avvocato Fiscale don Balthasar del Castillo e da don Pedro Capero, Deputato del Regno. Tutti costoro, dovevano riunirsi ogni settimana nella Segreteria per discutere i mezzi per affrontare la situazione.

Inoltre, per il gran numero di chiese, monasteri, conventi e abbazie distrutti, con centinaia di monache di clausura sbandate nel Val di Noto e per celebrare decentemente il Culto Divino aveva ordinato di formare una Giunta Ecclesiastica, composta dall’arcivescovo di Palermo don Fernando Bazan, dal Giudice della Monarchia don Gregorio Solorzano, dall’Inquisitore Generale don Phelipe Ignacio de Trujillo, dal frate Alessandro Conti e dal duca di Grotte come Deputato del Regno, al fine sempre di proporre tutti i mezzi necessari per far fronte al disastro.

Riassunto il contenuto delle drammatiche lettere del Duca di Uzeda, il Consiglio le rimetteva al Re, aggiungendo che non c’era «memoria di un simile evento così disastroso, né di tanta disgrazia né vittime» (i consiglieri si sbagliavano: e successivamente apprenderanno che eventi simili si erano verificati nel febbraio 1169 e nel dicembre 1542, nello stesso Val di Noto, n.d.a). Approvando in tutto e per tutto l’operato del Viceré per fortificare quanto prima le piazze di Catania, Augusta e Siracusa e la formazione delle due Giunte, il Consiglio d’Italia chiedeva al Re di permettere ad Uzeda di utilizzare le entrate della cosiddetta “mezza annata” (una sorta di tassa di successione sui feudi), di sospendere momentaneamente il contributo al duca di Savoia (per la guerra in corso contro i Francesi) e di sospendere per un anno l’erogazione di premi, incentivi ed aumenti su salari e pensioni, destinando tali risorse alla ricostruzione delle fortezze.
Come in genere usava, il Re fece scrivere poi in calce al documento «como parece», cioè «va bene».

Ma nella Sicilia di quei primi tragici mesi del 1693 non c’era solo l’emergenza materiale (seppellire i morti, costruire baracche, impedire i saccheggi, assicurare i viveri, raccogliere le monache di clausura). Nonostante i pochi danni subiti, Uzeda il 5 febbraio scrive che non c’era giorno che a Palermo non si diffondessero profezie di altri terremoti e desolazioni, come era accaduto a fine gennaio, con la gente fuggita nelle campagne perché una imprudente monaca aveva scritto a sua madre che di lì a poco ci sarebbe stata un’altra catastrofe.
In quei giorni infatti, oltre al dolore, alla lotta per sopravvivere, in metà della Sicilia due erano i protagonisti: la paura causata dall’”ira di Dio” e la Montagna per antonomasia, cioè il Mongibello. Mentre infatti la Chiesa cercava di spiegarsi i motivi per cui Dio era adirato con essa e con i Siciliani, le autorità civili guardavano al vulcano, e dalla sua quiete o dalle sue eruzioni temevano sciagure o finalmente pace.

Sin dal 16 gennaio infatti, il Secreto di Randazzo aveva comunicato che a seguito del terremoto di domenica 11 alle 2 e mezza del pomeriggio (la datazione delle scosse oscilla, come si vede dalle 14 alle 14,30) «la Montagna aveva cominciato a gettare fumo, e si era constatato che la sua cima si era abbassata»: era cioè crollata parte del cratere centrale. E fu così che dall’11 gennaio 1693 il Mongibello divenne un “osservato speciale”…
