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provincia di Ragusa

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di L’Alieno

Circa un anno fa scoppiò tutta una polemica sui cumuli di spazzatura denunciati da Selvaggia Lucarelli in vacanza a Noto. Tanti accusarono la giornalista di voler fare solo del protagonismo, invitandola a farsi i fatti suoi e a rompere i cabbasisi altrove. Ma cosa è cambiato da un anno a questa parte?

È cambiato sí qualcosa, ma in peggio. Le discariche a cielo aperto, dopo un anno, sono cresciute in misura esponenziale, facendoci fare una storica figuraccia di fronte ai tanti turisti che hanno affollato la nostra isola per tutta l’estate. Ma noi non ci siamo strappati le vesti più di tanto. L’assuefazione allo schifo alla fine ha prevalso. E non c’è angolo di Sicilia dove questo problema non abbia assunto una piega drammatica.

Ne hanno parlato con toni sconfortanti diversi blog e siti giornalistici italiani ed esteri. Niente. Le discariche abusive, spesso nelle piazzole di sosta delle strade, lì erano e lì sono rimaste. In altre parti d’Europa il dibattito sarebbe stato feroce e avrebbe coinvolto politica e società civile tra polemiche infuocate. Ma da noi sembra aver riscosso quasi più interesse la morte della Regina Elisabetta.

Apro una parentesi. Risulta perlomeno bizzarro tutto questo interesse per una regnante straniera, anche se ha rappresentato un lungo pezzo di storia (con diverse ombre, a dirla tutta). Ancora più bizzarro per un paese che del suo Presidente della Repubblica Mattarella, probabilmente non conosce nemneno il nome della moglie e quanti figli abbia.

(Sopra) La Regina Elisabetta, i suoi nipoti e le rispettive mogli. (Sotto) Il Presidente della Repubblica con la figlia Laura e la moglie Marisa. Mattarella ha anche due figli maschi, Bernardo Giorgio e Francesco. (foto corriere.it)

Torniamo però alla spazzatura sicula. Mi chiedo quanta importanza sta avendo questo tema nella presente campagna elettorale per le regionali. A me sembra molto poco. Quanti e quali partiti hanno le idee chiare sul da farsi per risolvere, una volta per tutte, questo gravissimo problema? Solo indicazioni vaghe. Nulla di più.

Pare proprio che i temi ambientali non interessino granché in Sicilia, né i partiti né la società civile, a parte qualche realtà ambientalista. Sembrano essere molto più interessati i turisti che vengono da lontano e rimangono basiti due volte arrivati nella nostra isola: uno per la sporcizia, l’altro per il nostro fatalismo indolente.
“Amma pinsari sempri o mali?”. Il problema è così risolto alla radice.

(Foto Corriere della Sera)
Marina di Acate. Plastica seppellita nella spiaggia (foto Capitaneria di porto di Pozzallo)

di Giuseppe Barone

C’era una volta la Camera di Commercio. Non sempre ha funzionato al meglio, anzi è stata accusata spesso di essere una struttura autoreferenziale che ha garantito lucrosi emolumenti ai propri dirigenti, di essere stata anche permeabile a nomine politiche, di non avere avuto quel ruolo propulsivo per le imprese previsto dal suo stesso statuto. Si tratta di accuse largamente ingiustificate. La verità è ben altra. Da quasi un secolo l’ente di Piazza Libertà ha rappresentato l’istituzione più vicina all’economia del territorio, un vero e proprio “municipio delle imprese” al servizio delle attività produttive.

L’edificio della Camera di Commercio di Ragusa nel ventennio fascista, quando era la Camera delle Corporazioni

Mostre aziendali, convegni tematici, esposizioni e fiere, assistenza giuridica e fiscale alle aziende, internazionalizzazione, politiche di marketing e di tipicizzazione dei prodotti: la Camera ha accompagnato lo sviluppo agricolo, industriale e terziario dell’area iblea, promuovendo i caratteri originali del “modello Ragusa”, basato su un tessuto virtuoso di piccole e medie imprese, come ho avuto modo di sottolineare qualche anno addietro (2015) in un volume edito da Unioncamere da me curato.

Poi hanno cominciato a litigare per le “poltrone”: i rappresentanti veri e presunti di artigiani, agricoltori, commercianti, imprenditori, esponenti sindacali, per faide interne sono riusciti a distruggere l’immagine stessa della Camera. Finché una malaugurata legge nazionale ha disarticolato il sistema camerale italiano , “regalando” all’ente di Ragusa un assurdo accorpamento con la Camcom di Catania. Abbiamo così perduto un pezzo della nostra identità, senza che nessuno abbia alzato un dito per chiedere ragione o protestare. Anzi alcuni notabili di mezza tacca ed amministratori locali hanno favorito lo scempio istituzionale per guadagnarci qualche incarico di sottogoverno. E la brutta storia continua ancora oggi con l’ ulteriore accorpamento con Trapani. Misteri della geografia e della politica!

(foto ragusaoggi.it)

C’era una volta l’Area di sviluppo industriale. Quante speranze , quante energie mobilitate per l’industrializzazione della Provincia dopo la legge 634 del 1957! Quì le lotte di campanile sono state però acerrime, per spartirsi i fondi pubblici destinati ai tre Nuclei di Ragusa, Modica e più tardi Vittoria. Ovviamente il capoluogo ha fatto la parte del leone, l’area Modica-Pozzallo ha dovuto attendere tempi biblici, l’Asi e’ stata presto occupata dai partiti e dalle loro clientele, e nel 2010 l’ incapacità delle Amministrazioni comunali di eleggere gli organismi dirigenti ha portato al commissariamento dell’ente.

Nel 2011 Confindustria si e’ sfilata da una gestione poco trasparente delle Asi siciliane , mentre nel 2012 la Regione ha istituito per legge l’Irsap (Istituto regionale per le le attività produttive), di cui anche l’Asi iblea è diventata appendice periferica. Non mi soffermo sulle vicende interne all’ente per carità di patria. Oggi le sterpaglie fanno bella mostra nei lotti abbandonati dei Nuclei in attesa dei finanziamenti promessi e arrivati col contagocce. Soprattutto l’Irsap non è più riuscito ad esprimere una progettualità delle forze produttive locali e si è adagiato nella pigra rendita di posizione di un ente regionale burocratico . Un’altra realtà lasciata a metà e senza un futuro plausibile.

C’era una volta la Provincia. In altri tempi non ho mancato di esprimere giudizi molto critici su questo ente, che non ha interpretato al meglio le aspettative delle città circa un sistema di sviluppo diffuso, preferendo concentrare sul capoluogo o distribuendo male le già scarse risorse, in parte dirottate verso sagre e feste paesane. Nell’ultimo mezzo secolo Presidenti, Giunte e Consigli di viale del Fante non sono riusciti a dotare il territorio delle indispensabili infrastrutture, collocando l’area iblea al penultimo posto a livello nazionale per viabilità.

Il palazzo della Provincia di Ragusa

Eppure di Provincia si sente più che mai il bisogno. Manca oggi la cabina di regia , il livello intermedio della programmazione e della “governance”, che un’ ottusa legislazione nazionale e regionale ha sacrificato all’altare di un’ipotetica “spending review”. La decisione di abolire le Province e poi di tenerle in piedi ma svuotate di risorse e di poteri è stata un’ altra scelta scellerata del Parlamento italiano.

Diciamolo con franchezza: andrebbero ridimensionate piuttosto la Regione e le sue incompetenti burocrazie, invece di ridurre le strutture amministrative intermedie come le Province. La proposta di sostituirle con i nuovi Liberi Consorzi sarebbe stata interessante, ma una pessima legge regionale del governo Crocetta ha trasformato un’opportunità in farsa politica e così tutto è naufragato: un gran rumore per nulla! Crolla così un altro pezzo del “modello Ragusa”.

(Immagine inchiestasicilia.com)

C’erano una volta le imprese. E quì davvero il discorso diventerebbe troppo lungo. Mi impegno sin da ora a ritornarci. Ma è a tutti evidente che l’originale sistema delle piccole e medie imprese, vanto del territorio ibleo, nell’ ultimo quindicennio è andato in frantumi sotto i colpi della crisi economica e di una disordinata globalizzazione che ha scompaginato storie e culture d’ impresa. L’agricoltura della “fascia trasformata” abbandonata alla concorrenza selvaggia dei paesi mediterranei, la mancata ristrutturazione delle aziende industriali, la scomparsa o il semifallimento delle banche locali, la fine ingloriosa dei patti territoriali e della programmazione negoziata hanno ridimensionato le speranze di un “modello Ragusa” basato sulla diffusione “orizzontale” e su una rete di imprese “glocali”, aperte all’innovazione ma con salde radici nella tradizione. Almeno per il momento, un poker di sfide perdute.

(foto Giorgio Colosi)

di Roberto Lo Guzzo

All’indomani della funesta ondata di maltempo che ha colpito il sud est siciliano, e in particolare il territorio di Modica, dove si annovera anche una vittima, ci si chiede se questi fenomeni temporaleschi estremi siano del tutto inediti in queste contrade, o soltanto poco frequenti, e di conseguenza poco noti alla maggioranza della popolazione.

Tra il 16 e il 17 novembre la Sicilia è stata flagellata da 14 di questi fenomeni, 9 dei quali veri e propri tornado. Secondo la scala EF (Enhanced Fujita), che ne stima l’intensità da 0 a 5 in base ai danni provocati, quello di Modica potrebbe essere classificato come un tornado EF2, con danni significativi e venti fino a 220 km/h. Personalmente non ricordo eventi simili, o almeno non così funesti.

Tromba d’aria nel modicano il 17 novembre 2021 (foto da meteoweb.eu)

Da una prima disamina però emerge che il tornado del 17 novembre scorso sarebbe soltanto l’ultimo episodio, e si conceda pure tra i più drammatici, di una serie lunghissima, talora neanche registrata perché queste raffiche spiraliformi, allorché si manifestano in contesti scarsamente antropizzati, non destano scalpore.

Frequentissime sono le trombe marine, quelle cioè che si originano al largo delle nostre coste e che esauriscono la loro carica una volta che impattano con la terraferma (landfall): Sampieri, Cava d’Aliga, Santa Croce Camerina, Scoglitti, sono da sempre le aree più funestate. Quella che si abbattè su Santa Croce il 31 ottobre 1964 fu definita ‘catastrofica’ dallo storico Giuseppe Micciché.

Trombe d’aria marine (foto da Twitter e ecodegliblei.it)

Fu invece una tromba d’aria a investire l’altopiano il 19 ottobre 1961. Il bilancio in questo caso fu pesantissimo: oltre a danni ingenti all’agricoltura, furono registrate 7 vittime, 4 a Giarratana e 3 a Ragusa. Quello che si abbattè sulle campagne di Scicli il 12 novembre 2004 fu poi un vero e proprio tornado multi-vortice. Questa tipologia di tornado è associata a vortici mesociclonici di livello superiore a EF3, con danni gravi e venti fino a 270 km/h. L’uragano danneggiò in effetti strutture in cemento armato, muri di cinta, oltre a trasportare a distanza alcune vetture, una roulotte ad esempio fu ritrovata a circa 1 km dalla piazzola di sosta.

Danni causati in provincia di Ragusa il 17 novembre (foto da meteoweb.eu)

Limitatamente all’area di Modica, si ricorda la tromba d’aria che il 25 novembre 2015 si abbattè sulle campagne a nord del centro abitato, danneggiando in modo particolare un’azienda agricola e la casa dei rispettivi proprietari, da cui volarono via le tegole. Lungo il litorale modicano fu distrutto invece il circolo velico che insisteva nei pressi del moletto.

Nel gennaio dello stesso anno una tromba d’aria era stata segnalata in C.da Caitina, mentre su tutta la città soffiavano venti fortissimi, facendo volare via sedie e ombrelloni pertinenti alle attività commerciali del centro storico, e distruggendo finanche il muro di cinta dello stadio Vincenzo Barone.

Il muro di cinta dello stadio Vincenzo Barone di Modica danneggiato da una tromba d’aria nel 2015 (foto meteoweb.eu)

Nel Piano Comunale di Protezione Civile si fa riferimento esclusivamente alla tromba d’aria che seguì l’eccezionale grandinata del 15 settembre 2002. Non esisterebbero dunque altri precedenti nel territorio di Modica. Ma è più probabile che faccia difetto la memoria. Del resto la cultura popolare ha tramandato aneddoti, litanìe, termini quali “cura ri draunàra” (coda del drago); “fra Cola” (frate Nicola); fuddittu (folletto), che altro non sono che personificazioni di fenomeni naturali ritenuti un tempo opera del Demonio, e in quanto tali da esorcizzare. Va da sé poi che questi termini o anemonimi alludano a dei fatti storici.

Modica e la sua Cattedrale di San Giorgio (foto da Wikipedia, Ludvig14)

Nella Grammatica di Giovanni Ragusa alla voce “cura ri draunàra” leggiamo: “nube nera foriera di tempesta”. Ivi si rimanda inoltre alla voce sinonimica “fra Cola”, ovvero “nuvola nera apportatrice di burrasca”. Il Guastella (nel Vestru) intendeva quest’ultima come “una nuvola a foggia di frate col cappuccio, segno infallibile di pioggia impetuosa”. La credenza popolare, raccolta dallo stesso, narra di un eremita che viveva sulla collina della Giacanta, il quale per avere rifiutato di dissetare una giovane, che da lì a breve sarebbe morta, fu condannato ad errare tra le nuvole.

Giovanni Ragusa (1911-1998) e il suo Vocabolario italiano-siciliano ibleo (foto da ragusaonline.com  e kromatoedizioni.it)

Più preciso Paolo Revelli, secondo cui la cosiddetta “cura ri draunara” sarebbe una “nuvola nera di forma allungata apportatrice di pioggia temporalesca”, laddove con il termine “fra Cola” ci si riferirebbe ad una “nuvola fosca involuta”. Il cosiddetto “fuddittu” è descritto invece come un “forte colpo di vento che lacera le nubi”, qualcosa di simile a quello che in gergo viene chiamato “dust devil” o “turbine di sabbia”. Nella cultura popolare il fuddittu è una figura demoniaca, e solo in senso lato sta per “vento vorticoso”, ma ne parleremo meglio nel secondo articolo la prossima settimana.

Foto banner da meteoweb.eu

di Gabriele Scrofani

Tra i tanti aspetti della nostra vita, che vengono e verranno condizionati dal cambiamento climatico che stiamo vivendo, uno dei più importanti e urgenti è quello che riguarda l’alimentazione legata all’agricoltura e all’allevamento. Aspetti che ovviamente riguardano l’intera popolazione mondiale, sebbene con urgenze differenti. Sono numerosi i report e gli studi che sono stati o verranno pubblicati da parte di importanti istituzioni come la FAO e l’EFSA.

Il problema è di importanza planetaria ma nel nostro territorio, a forte vocazione agricola, ci riguarda ancor più da vicino anche per le implicazioni che riguardano la zootecnia da cui otteniamo latte e derivati, carne, miele e tanti altri prodotti. Le condizioni climatiche peculiari che già ci caratterizzano sono in grado di condizionare le scelte delle colture e ancor di più ci condizioneranno nel prossimo futuro per colpa di un clima sempre più arido. Un processo che ci porterà ad una tale progressiva desertificazione da compromettere la sussistenza di alcune colture che richiedono maggiori quantitativi di acqua o specifici terreni ricchi di nutrienti.

Il rischio desertificazione in Sicilia (fonte e immagine: asvis.it)

A questo proposito il 17 giugno scorso si è tenuta la giornata mondiale contro la desertificazione e la siccità. Si è parlato della riconversione di terreni degradati (punto 15 dei 17 goals proposti dall’ONU nell’Agenda 2030) e i dati esposti sembrano dimostrare che almeno il 10% del territorio italiano è a serio rischio siccità. La Sicilia addirittura sembra la regione che presenta il rischio maggiore con un 42,9% di superficie totale sensibile alla desertificazione. Una percentuale altissima. Non è un caso che negli ultimi anni a soffrire di più sono state e sono le colture degli agrumi. Fatto che sta già spingendo gli agricoltori a puntare su coltivazioni alternative di mango e avocado. Nonostante ciò, il consumo di suolo, ovvero il passaggio da suolo non artificiale a suolo artificiale è in leggero aumento in Sicilia  (fonte ISPRA e ARPA), con una punta di incremento percentuale (15,4%) proprio nella provincia di Ragusa. Mentre per quel che riguarda i singoli comuni della provincia la città di Vittoria primeggia, seconda nell’isola soltanto a Palermo. Nello specifico, l’incremento di suolo consumato a Vittoria è da imputare alla realizzazione di nuove serre agricole.

Una distesa di serre nella pianura vittoriese (foto da ragusaoggi.it)

Al di là del consumo del suolo è comunque necessario valutare le produzioni che ci possono aiutare in questa transizione: nella fattispecie l’agricoltura a basso impatto ambientale. Ovvero l’agricoltura biologica, che prevede l’utilizzo di sostanze e processi naturali che riducono l’uso di prodotti di sintesi, e l’agricoltura conservativa che riduce la lavorazione del suolo e il suo rimescolamento. Si impedisce così al metano (un importante gas clima-alterante) e al carbonio di essere rimessi facilmente in atmosfera.

Le coltivazioni maggiormente suggerite sembrano le sempreverdi tipiche della macchia mediterranea quali olivo e carrubo: in particolare l’ulivo da recenti studi condotti proprio in Sicilia risulta più efficiente nel bilancio tra CO2 emessa e assorbita. La caratteristica che rende le essenze sempreverdi meno impattanti è legata alla loro attività fotosintetica che continua anche in inverno, quando altre essenze sono in stand-by.

Carrubo e ulivo: esempi di colture sostenibili nel ragusano

Anche l’allevamento di animali (molto presente nella zona collinare iblea) presenta gravi problemi di sostenibilità ambientale. In Europa (come nel Nord America) si è calcolato che oltre la metà dei cereali prodotti sono consumati dagli animali allevati, determinando alla base uno svantaggioso indice di conversione alimentare: per ogni chilogrammo di proteine animali prodotte, occorrono circa 6 chilogrammi di proteine vegetali e con un conseguente consumo iperbolico di risorse idriche necessarie alla coltivazione del foraggio per il sostentamento alimentare degli animali. Su scala globale vengono impiegati oltre 2300 miliardi di metri cubi d’acqua l’anno. Anche l’allevamento vero e proprio richiede l’utilizzo di ingenti risorse idriche: un bovino da latte, durante la stagione estiva, può consumare fino a 200 litri di acqua al giorno, un maiale oltre 20 litri e una pecora circa 10 litri. Considerando anche l’acqua che viene usata per la pulizia di strutture e animali, per i sistemi di raffreddamento e lo smaltimento dei rifiuti, ci sarebbe molto da riflettere sulla necessità di un cambiamento radicale sia sul modello produttivo che sui consumi alimentari.

Un allevamento intensivo di bovini (foto da essereanimali.org)

In ultimo ragionando di azioni messe in atto per ridurre l’impatto ambientale una grossa mano si attende dalla strategia “Farm to fork”, dove un’agricoltura di precisione mira ad aumentare la produzione non soltanto riducendo la superficie di coltivazione, applicando il metodo conservativo e razionalizzando i sistemi di irrigazione, ma agendo sulla genetica delle essenze foraggere per ricercare dei genotipi più resilienti alle temperature sempre più alte. Quest’ultima metodica però è apertamente in contrasto con i dettami dell’agricoltura biologica che prevede di non utilizzare prodotti OGM. Mi sembra però inevitabile che con il peggiorare della situazione climatica questa resistenza dovrà venir meno per ottenere coltivazioni capaci di resistere alle mutate condizioni ambientali.

(Immagine da naturachevale.it)

Vorrei anche ricordare quanto sia importante il comportamento di tutti noi nelle scelte quotidiane  di acquisto di prodotti provenienti da un’agricoltura sostenibile e l’urgenza di pratiche più ecocompatibili nella nostra vita per rendere questa transizione possibile.

(Fonte e immagine da: Repubblica.it)

foto banner da qds.it

di Vincenzo la Monica

Per i turisti che stanno per atterrare all’aeroporto di Comiso la fascia trasformata è il bordo di un grande scudo di plastica che la terra protende verso il mare, in una accanita lotta di elementi per dominare la forma altrui e imporre le propria. Nessuno dei viaggiatori, naturalmente, pensa a questo. Qualcuno rimane colpito dal grigio impenetrabile di quello scudo in basso e forse, mentre il velivolo lo sbalestra a quote sempre più basse, si accorgere che il sole, assecondando i movimenti dell’aereo in atterraggio, luccica sullo scudo come un indiano in Ombre Rosse, quasi a volerlo avvisare di qualcosa. Ma chi ci pensa più quando sui tabelloni a terra è già apparsa la scritta landed? Tutti i turisti hanno raggiunto la loro quota naturale e corrono via al Duomo di San Giorgio, alla casa sulla spiaggia del Commissario Montalbano, alle cupole di Noto color biancomangiare. Nessuno si ricorda più della paurosa distesa delle serre che coprono interi orizzonti.

Ad altezza uomo, ad andarci in mezzo con un’automobile, le serre non incutono meno timore. L’impressione di compattezza, lì in mezzo, si sfalda. E quella città (Vittoria, Acate, Santa Croce) che credevi finita, lasciata alle spalle, ricomincia. Nel labirinto delle strade provinciali e nel suono lugubre del vento che percuote la plastica. Nel manichino con il vestito corto bianco a fiori viola, che il vento solleva fino a scoprire il pube dipinto di verde. Nelle discariche a cielo aperto, nelle case al mare chiuse, nei tetti di eternit sfondato e nel lungomare di dune. Negli sterrati, nel brulicare di bambini che vengono fuori correndo da quella che una volta era una stalla, nei passi lenti dei rom di Botosani, nel capo velato di una ventenne tunisina a cui la fatica e le gravidanze hanno raddoppiato l’età. Nei vestiti anni ’90 degli albanesi.

(Ph. Emiliano Amico e Domenico Leggio)

E in questa città marginale tutti vanno a piedi e si cantano canzoni in arabo e si respira l’aria di plastica data alle fiamme e di fitofarmaci abbandonati nella curva del fiume Ippari. E non c’è un sindaco né una Chiesa, ma solo e sempre le serre che in estate alla fine si spogliano della loro plastica senza svelare, tuttavia, il mistero dei braccianti che le hanno lavorate, abitate, rese vive.

(Ph. Emiliano Amico e Domenico Leggio)

Questo è il luogo degli invisibili, dei senza residenza, dell’umanità irregolare e dell’economia di cui c’è poco da esser fieri. Questo è il luogo raccontato in un libretto importante e coraggioso edito da Sicilia Punto L: “La fascia trasformata del ragusano” con un sottotitolo di esplicita militanza: Diritti dei lavoratori, migranti, agromafie e salute pubblica.

(Ph. Emiliano Amico e Domenico Leggio)

Nelle sue 188 pagine è raccontata in modo schietto la vita dei lavoratori e dei loro bambini
partendo dalle lotte contadine degli anni ’50 fino ad arrivare ai nostri giorni indagati con il piglio partecipe degli operatori sanitari, economici, sociali. Con studi e testimonianze eterogenee per ruoli ed appartenenza (il sindacato, la Caritas, la Diaconia Valdese, l’università, la scuola, l’associazionismo, il giornalismo, l’arte), ma tutte indirizzate verso la presa di coscienza, in direzione dell’umanità volta a restituire dignità, ma anche autonomia ai lavoratori migranti e ai loro progetti di vita che non fanno di loro esclusivamente delle vittime, ma dei portatori di storie e di progetti. Con una netta scelta di campo, anche se i tempi non sembrano propizi. Anzi, proprio perché i tempi non sembrano propizi.

di Redazione  

“OLTRE-I-MURI” è l’idea di una società iblea aperta al mondo, alla collaborazione, alla solidarietà, alla diversità.

“OLTRE-I-MURI” è “fare sistema”, il rafforzamento dei legami sociali, il bisogno di abbattere muri per fare comunità. È sentirci tutti parte di un progetto culturale comune finalizzato alla crescita della nostra isola

“OLTRE-I-MURI” è momento di riflessione, dibattito, pluralità di opinioni, ironia, umorismo; è laboratorio per costruire una rete di persone e competenze per condividere idee, esperienze umane e professionali. Consapevolezza di ciò che ognuno può dare per il bene comune.

“OLTRE-I-MURI” è anche un progetto per aiutare a riavviare un nuovo ciclo sociale virtuoso privo di autoreferenzialità. Perché deve essere chiaro a tutti che il bene di ognuno passa attraverso il bene di tutti.

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