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di Giuseppe Cultrera

«Comare che dice la carta che v’ha consegnato Don Vito Possibilimai?»
«Nenti cummari, è il certificato per le elizioni.»
Quando bussava a una porta, il messo comunale non sempre era foriero di belle nuove: a volte erano tasse, oppure era la cartolina del precetto militare per il figlio (che ora che si era fatto grande e forte era una grazia di Dio per la vigna e la campagna!) o era qualche incomodo, ché quelli del Comune non avendo altro da fare, si sprummèntavano sempre nuove cose.

Lui arrivava sussiegoso, si toglieva il cappello e con il dito alzato «Signora mia cara», incominciava… ma già l’interlocutore aveva aperto la porta e con un leggero inchino «S’accomodi Don Vito». Quanto gli piaceva quel don che condivideva con i possidenti e i notabili; meno la ‘ngiuria, che leggeva negli sguardi o percepiva sussurrata dietro una vetrata socchiusa. A una putiara che lo rincorreva agitando il foglio appena notificato e gridando «Sintìti don Vitu Possibilimai», a muso duro aveva replicato «di cognome faccio Ragusa. Don Vito Ragusa mi chiamo, egregia fruttivendola!»

possibile mai
Giuseppe Puccio, “Raccolta di circa 650 soprannomi chiaramontani, utili a tutti”, tavola litografica, 1928

La malcapitata, rossa e sudata, aveva balbettato «Scusati… ma iu crirìa… accussì mi dissiru… sugnu forestiera». In effetti quel lestofante di don Jano Pistafavi, il lattoniere del dammuso adiacente, quando la giovane forestiera aveva chiesto il nome del messo, che giorni prima le aveva notificato una ingiunzione del comune, aveva risposto serafico «don Vito Possibilimai si chiama. Vero signora Vironica?» rivolto alla dirimpettaia, ammiccando sornione. «Certo», fece quella (manco a dirlo!).

Giacca e cravatta, cappello elegante, loquela sciolta e in lingua italiana, don Vito Ragusa, messo comunale, faceva la sua bella figura.  Era ben visto, per la sua disponibilità e solerzia, dal sindaco e dall’amministrazione e pertanto sempre presente nelle cerimonie pubbliche, dove dava sfoggio della propria “cultura” e intraprendenza.

possibile mai
Chiaramonte Gulfi, restauro di una fontanella adiacente alla chiesa di S. Filippo (primi del novecento)

Insomma, si sentiva parte di quella scelta cittadinanza che o per meriti o per diritti di sangue o per sagace contiguità con costoro, si elevava sopra la massa di poveri contadini e popolani adusi a sbarcare il lunario e a beccarsi tra loro come i polli della stia ro’ zu Paolu Causilìenti. Per questo quel soprannome che come la spada di Damocle lo sovrastava beffardo – “retaggio di povertà e atavico sottosviluppo” –  lo indisponeva.  E la gente sembrava avvedersene: lo leggeva nei loro occhi furbi, quando passava per strada, o saliva le scale del Palazzo di Città.

I monelli poi erano i più terribili: al suo passaggio a bocca chiusa sibilavano pss, psipsi, pisspiss, qualcuno un sincopato possblmai. Lui si inalberava, li inseguiva urlando «Ti ho conosciuto, so chi è tuo padre, vedrai stasera!». Ma era peggio, perché la gente accorreva e con finta deferenza «Cosa è stato don Vito, qualche monello vi ha mancato di rispetto?»
Possibile mai che un galantuomo che ha cercato in tutti i modi di conquistarsi uno spazio sociale ed una rispettabilità…

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Massa Vito, il nonno, gli aveva procurato questa eredità ingombrante. Come? Era solito usare tale interlocuzione.
«Sapete oggi al mercato c’era poca roba.»
«Possibile mai?»
«Domani forse piove.»
«Possibilimai?»
«Non c’è più onestà.»
«Possibilimai.»
Poi divenne un intercalare:
«Certo che la gente è strana. Un giorno, possibilimai, è allegra; l’indomani, possibilimai, intrattabile.»

possibile mai

E così via. Tanto che qualcuno cominciò a indicarlo come u massa Vitu Possibilimai.
«Chi è il vostro vicino?»
«‘U Massa Vito Possibilimai.»

E il soprannome gli restò appioppato per tutta la sua vita restante. Non solo. Ma, come era ovvio, lo ereditarono i suoi figli e poi i figli di costoro, compreso don Vito, il messo comunale. I Possibilimai furono il ramo dei Ragusa con capostipite massaro Vito. E il suo approccio filosofico alla vita: di dubbio perenne.

don vito

Era avvenuto e avveniva per tanti altri gruppi famigliari: d’altronde nel secolo XVIII e XIX le famiglie erano meglio note colla ‘ngiuria (soprannome) che col cognome. Negli atti anagrafici ho rinvenuto spesso accanto al cognome, specie dei testimoni, l’indicazione inteso seguito dal soprannome.

Tale uso era comune anche negli atti notarili, nelle scritture private, nei contratti. Tanto che, a inizio secolo XX, il litografo e scrittore Giuseppe Maria Puccio (Chiaramonte 1852 – Ragusa 1937) ritenne opportuno approntare una Raccolta di soprannomi chiaramontani (1923) che ripropose in edizione più ampia nel 1928 col titolo di Raccolta di circa 650 soprannomi chiaramontani, utili a tutti.

don vito
Giuseppe Puccio, “Raccolta di soprannomi chiramontani”, litografia, 1923

Banner: Antico costume Chiaramontano: nobile massajo e contadino, litografia acquerellata di Giuseppe Puccio (1908).

di Giuseppe Cultrera

Strane persone gli artisti: almeno per la maggior parte dei popolani dei secoli andati che nell’estro e negli interessi “elevati” di costoro non faticavano molto a sentir puzza di bruciato. Specie se come Salvatore e Giuseppe Puccio, padre e figlio, fisiognomica e malevole dicerie certificavano l’assioma.

I Puccio furono bravi incisori e litografi, scultori e decoratori, e operarono a Chiaramonte tra inizio ottocento e primi del novecento. Il padre Salvatore e i figli Giuseppe, Bonaventura, Michelangelo e Raffaele, però, non riuscirono a raggiungere una minima agiatezza economica; anzi, nonostante una discreta mole di commesse e di lavoro, ebbero sodale alla loro tavola la fame.

Quando sono partito era ancora vivo
San Biagio, incisione di Salvatore Puccio (a sinistra) e una litografia colorata di Giuseppe Puccio rappresentante l’antica Chiaramonte (a destra)

E don Giuseppe sembrava rappresentarla fisicamente. Allampanato alto e avvolto, nell’età avanzata, in un nero mantello.

Si racconta che il barone Corrado Melfi, del quale don Giuseppe era fornitore di lavori grafici e amico, avesse un cane mastino, nero e terribilmente aggressivo, tanto che lo teneva nella villa di campagna di contrada Cicimia dove la famiglia passava l’estate. Era il terrore del vicinato e quando qualcuno giungeva in casa, il barone, o chi per lui, doveva trattenerlo o allontanarlo perché cercava di aggredire l’ospite. Ebbene, questo cerbero appena giungeva nella villa Giuseppe Puccio – per consegnare qualche lavoro o per incontrare il barone – guaendo e con la coda tra le gambe, andava a rincantucciarsi in un angolo. Non se ne faceva cruccio l’artista Puccio, anzi sembra che ci scherzasse su rievocando magari “il cavaliere dalla trista figura” don Chisciotte, oggetto anche lui di dileggio del volgo.

Quando sono partito era ancora vivo
Ritratto del barone Corrado Melfi, pittura a olio di Nicolò Distefano (a sinistra) e cartolina pubblicitaria del laboratorio litografico di Giuseppe Puccio

L’arguzia era abbondantemente presente, infatti, nei Puccio. Come quella volta che il padre dovette recarsi nel vicino paese per consegnare una scultura lignea, un “Cristo morente” snodabile da fissare e togliere dalla croce in occasione della Settimana Santa. Era inverno e don Salvatore Puccio, con gli accorgimenti del caso, caricò la scultura sull’asino fissandola bene al basto; e a piedi si avviò verso il vicino paese montano. Sulle alture dell’Arcibessi in contrada Maltempo, però, fu sorpreso da una violenta tempesta di neve e vento che lo accompagnò fin alle porte di Monterosso. Giunto in piazza, alcuni curiosi s’avvicinarono all’asino sul quale stava la scultura del “Cristo morente” e osservando la statua cominciarono a fare apprezzamenti sul lavoro. In particolare qualcuno evidenziava che il Cristo fosse troppo “murtascinu”.

Quando sono partito era ancora vivov
Dipinto di Francesco Iacono (1984) con soggetto la contrada Maltempo di Chiaramonte Gulfi

Don Salvatore, che ancora non si era ripreso dal lungo e faticoso viaggio e che ben altro aveva visto durante il tragitto dal Maltempo (mai contrada ebbe denominazione più calzante!) a Monterosso, con volto atteggiato a stupore replicò: «Vi assicuro che quando sono partito da Chiaramonte era ancora vivo. Poi siamo incappati nella bufera di neve: è già molto che sono giunto vivo io!».

Quando sono partito era ancora vivo
Antiche cartoline raffiguranti due scorci di Monterosso Almo

Illustrazione del banner: Giuseppe Puccio, “Antico costume chiaramontano”, litografia colorata a mano, 1908.