di Giuseppe Cultrera
“Il tempo passa senza far rumore”
(Gàbriel Garcia Marquez, La mala ora)
Il paesaggio urbano muta col tempo, accrescendosi o restringendosi di alcuni elementi. Le botteghe artigianali, le rivendite alimentari, i magazzini e i bazar, per esempio, vanno speditamente scomparendo o mutando radicalmente. Portando via, oltre a un esercizio commerciale, uno spazio comunitario ricco di presenze umane, dinamismo, incontri ed emozioni. Mentre i surrogati si stanno rivelando scintillanti e ammalianti contenitori vuoti.
Torneremo a rimpiangere, probabilmente, le putìe stipate all’inverosimile di alimenti, utensili, materiale vario – certamente meno vivaci e attente alla “cura e conservazione del prodotto” garantita dagli attuali sostituti – ma con al banco di vendita il largo sorriso o l’affaccendata premura dei vari Don Carruzzo, Ronna Paulina, Ronna Ciuciù, don Adolfo, Sariddo, Pippuzzo.

D’accordo, stiamo parlando del secolo scorso a Chiaramonte Gulfi; ma sembra ieri e parecchi di noi ancora li ricordano quei visi e quei luoghi che, come gli occhi degli antichi proprietari, si chiudono, lasciando uno spazio orfano e dai contorni indefinibili. Le strade si fanno più vuote, più silenziose. La via re’ putìe (via San Paolo, adiacente alla Piazza duomo) già buccirìa della città tardo medievale, ha visto di recente la scomparsa della bottega dei mille articoli, uno dei più antichi negozi di Chiaramonte, così come testimonia una foto d’epoca.

Pippuzzo Molè “lo ricorderemo seduto proprio dinanzi al suo piccolo bazar dove si trovava di tutto e di più, dal piatto in ceramica di Caltagirone alla caffettiera, dalle forbici al vaso da giardino, dalla pentola ai colorati palloni, dal secchio di plastica al contenitore dell’olio”. È stato il più giovane e forse l’ultimo di questa categoria di lavoratori con una connotazione identitaria.
Né il rimpianto o la nostalgia possono riportare indietro le lancette del tempo o ricreare un mondo all’apparenza più umano del presente, proprio per la lente deformante di quei due sentimenti; possiamo invece conservarne la memoria e alcuni valori.

Ricordo con piacere l’elenco degli esercizi commerciali della via San Paolo (strata re putìe), che mi fece uno di quei putìari .
Nel breve spazio di una cinquantina di metri c’erano la gran parte delle botteghe di città. Partendo dalla piazza, a sinistra: un barbiere, due fruttivendole, la putìa di un ortolano, un ciabattino, una macelleria, un altro fruttivendolo, un magazzino di materiali edili, un ciabattino, una maglieria, due fruttivendoli e uno scarparo. Ritornando dal lato destro una bottega di articoli elettrici (più recente), un panniere, il bazar dei mille articoli, un falegname, una macelleria, un calzolaio, un ciabattino, la trattoria Marabedda, un macellaio (poi pescheria): e siamo di nuovo in piazza, con la sala da barba di don Filuzzo Riggio (ad angolo). Altri “esercizi commerciali” erano nelle vie adiacenti.

La presenza di derrate alimentari, specialmente ortofrutta, rendeva questo spazio pregno di odori: ma su tutti spiccava quello della carne e specialmente salsiccia arrostita nelle trattorie. A pochi metri c’erano quella di Majore, con una clientela anche forestiera, e quella ro Mutilatu, con avventori locali che stazionavano più a lungo nel locale durante la giornata, accompagnando un muorsu di pane e salsiccia con più bicchieri di vino. Stessi rituali nella già ricordata ra’ Marabedda, a inizio della via re’ putìe.