Stanco di zappare da mane a sera, un contadino, mise da parte il maràgghiu (zappa larga) e andò a farsi monaco.
Il priore del convento, il giorno successivo, lo mandò a chiamare:
«Che facevi al tuo paese?» «Zappavo. E mi son fatto monaco perché il lavoro non mi piace» rispose lesto quello. «Allora ti dico cosa hai da fare: vai in sacrestia e prendi il matacubbu che poi ti dico il tuo servizio».
Il monaco novello andò in sacrestia e vi trovò soltanto – in bella vista – una zappa. La prese in mano, e riguardandola, con disappunto:
«Lu nomu ti canciasti: di maràgghiu, matacubbu ti mittisti! » «Hai cambiato il nome di zappa, con quello di marra!»
Lo raccontavano i vecchi di una volta al giovane lavoratore che si mostrava poco incline al duro lavoro che quotidianamente lo aspettava, cercandone un altro meno pesante e impegnativo. Spiegando, con sottile ironia, che per i poveri diavoli il lavoro facile o leggero, non era stato ancora inventato!
Certo il posto è suggestivo: una cava incontaminata con una serie di ipogei di epoca paleocristiana e bizantina, un pigro torrente che scorre a fondo valle tra ciottoli bianchi e crescioni e nel dedalo di stradine annaspanti tra stretti e cadenti muri a secco, maestosi carrubi secolari, ruderi di edifici rurali, resti di abitati medievali, ricoveri segreti di antichi e misteriosi briganti. E una antica masseria con al centro la “turri ‘i Rrenna” avanzo di un castello feudale. Nucleo centrale di un ex feudo di 300 salme che un manoscritto del canonico G. Boscarino ricorda ormai incolto e abbandonato, ricovero nel passato di briganti che avevano occupato gli aggrottamenti. Con una storia – anzi due o tre – insolitamente pepate.
Ragusa: contrada Renna
Queste terre l’abitarono dei monaci che stavano nella torre, dicevano messa nella chiesetta accanto, confessavano massari e contadini della zona; ma specialmente stavano attenti a non farsi arrubbare dai mezzadri e braccianti che coltivavano il loro feudo. Tutti chiesa e casa di giorno. Di notte, quando nessuno poteva vederli, briganti di roba e di donne. Rubavano di tutto a man bassa, ma la loro passione erano le belle donne, specie quelle giovani. E guardate come facevano.
Se una massarotta andava a confessarsi, arrivato il momento della penitenza il monaco biascicando con sussiego la penitenza, diceva che data la particolarità del peccato non poteva assolverla subito, anzi dopo aver ottemperato alla penitenza a casa, necessitava che ritornasse il pomeriggio per riconfessarsi onde avere finalmente l’assoluzione. Quando la sfortunata vittima ritornava il vespero a confessarsi, entrava in chiesa e non usciva più. E non capitava a una o due, erano in tante a sparire, specie tra le più belle e giovani.
Stampa popolare (sec. XVIII)
Non vi dico l’angoscia delle ignare donne oggetto di concupiscenza, spasso e crapula, di questi monaci birbanti. Che quando avevano finito di scapricciarsi le chiudevano in un sotterraneo e tornavano a caccia di roba fresca.
I contadini, incapaci di venire a capo delle numerose sparizioni di mogli e figlie, andarono a consigliarsi con il guardiano (non lo sapevano, poveretti, che era il capo opera!) che con voce roboante e strabuzzando gli occhi: “Sciocchi! Che cercate? È opera degli spiriti maligni, questa. La tentazione del Maligno se l’è portate via.”
Restarono come allocchi. Ammutoliti si guardavano l’un l’altro tentennando il capo. Poi andarono via. Ma la cosa andava a peggiorare, perché ne sparivano sempre più, nonostante i massari e contadini della zona mettessero la massima attenzione a proteggere le loro donne. I mariti finirono per restare persino a casa, per proteggere moglie e figlie femmine.
Uomo che trova un tesoro nascosto. Stampa del secolo XVII
Accadde, però, che una giovinetta dolce e bella come uno zucchero, volle andare a confessarsi e il padre temendo che gli spiriti durante il tragitto potessero rapirla, volle seguirla. Così l’accompagnò fino alla porta della chiesa e restò ad aspettarla. Si fece notte e la figlia non usciva. Risoluto il contadino entrò, ma non vide nessuno. Allora infuriato chiamò i monaci e ne chiese conto: “L’ho vista entrare con i miei occhi!” Ma quelli, sornioni, “Vostra figlia a quest’ora sarà a casa. È uscita e non ve ne siete accorto. Vedete, qua dentro non c’è anima viva!”
Il povero padre se ne tornò speranzoso a casa. E come era prevedibile non trovò la figlia. Ma la voce che si era sparsa fece accorrere gli altri massari e contadini, che armatisi di bastoni, falci, tridenti si avviarono alla torre di Renna decisi a fare chiarezza una volta per sempre: “O ci fate vedere tutte le stanze – intimarono ai monaci – o vi facciamo la pelle.” I monaci per dimostrare la loro buona fede e che non avevano soggezione, spalancarono le porte e li fecero entrare in tutte le stanze. Ma non trovarono nulla. Anche quando scesero nei sotterranei, nisba! “Avete visto che qui non c’è nulla?”
Cava Renna: un ‘muragghiu’ e una edicola votiva campestre (a destra)
Massari e contadini se la presero allora col padre della picciotta: “Chissà dove se n’è andata tua figlia!”
“No– urlava il povero padre – vi giuro, l’ho vista entrare qui. Non è potuta volare, qua deve essere!” E mentre parlava gli occhi si soffermarono su una grande valata in un angolo, che al centro aveva un anello. Risoluto afferrò l’anello, sollevò la botola e vide una scala in pietra che scendeva sottoterra: urlò il nome della figlia ed ebbe la sensazione di sentire delle voci che rispondessero. Corse verso il sotterraneo mentre gli altri, afferrati i monaci, li legarono come salami e subito dopo seguirono l’infelice padre. Sotto c’erano tutte le donne sparite (c’erano anche parecchi bambini: i figli che le sventurate avevano avuto coi monaci): li tirano fuori e al loro posto ci ficcarono i monaci.
Non finì: il padre della picciotta, furente, andò a Palermo dal Re: “Giustizia maestà!”. E l’ebbe. Perché il Re non solo fece ammazzare i monaci perversi, ma diede in censo a quei contadini e massari le terre confiscate.
Nei sotterranei del castello restò incantesimato un tesoro – una ninfa (lampadario) tutta d’oro massiccio – che viene custodita dagli spiriti dei briganti che abitarono quei luoghi o da un monaco, anima dannata di uno di quegli altri briganti che rubavano anche donne.
Una volta quattro fegatosi, due mascoli e due femmine, s’avventurarono nel sotterraneo muniti di corde e lampade all’acetilene: dopo un arduo percorso giunsero a una serie di cammare tutte ricavate nella roccia e qui si presero un bello scanto, perché le lampade spentesi di colpo non ci fu verso di riaccenderle; e per ritrovare l’uscita solo Dio sa come ci riuscirono, con quello scuro che si tagliava a fette. E fu tanto lo scanto che tutti e quattro caddero malati!
Ma qualcuno, a mezza voce, racconta che una partita invece superarono quelle stanze (ora non più raggiungibili perché intasate di materiali) e nell’ultima trovarono un monaco che li aspettava a braccia aperte: voleva abbracciarli, il buontempone! Che se l’avessero fatto l’avrebbero sbancata la trovatura e si sarebbero arricchiti come pascià. Invece si scantarono e se ne tornarono di prescia indietro: restando con l’occhi cini e le mani vacanti!
Pertanto anche questo tesoro incantesimato, aspetta un predestinato.
Cava Renna
Due note a margine: Torre di Renda: La Torre, la chiesetta e il fabbricato rurale assieme al vasto feudo furono proprietà del Collegio Gesuitico di Modica, pervenuti probabilmente per eredità del P. Girolamo Renda Ragusa (1665-1727), scrittore e storiografo di quell’ordine. Il toponimo cava e contrada di Renna, è la corruzione popolare del nome del famoso gesuita. Soppressione dell’ordine (sul finire del ‘700) e conseguente alienazione del fondo, nell’immaginario popolare si combinò con la presenza di monaci birbanti, briganti che nascondevano refurtive e tesori sepolti nei meandri della terra. I briganti: Nelle grotte adiacenti, si tramanda, anticamente si nascondevano dei briganti che operavano scorrerie nelle regioni limitrofe. E forse, come è usuale nei sostrati leggendari, c’è del vero: per lo meno a leggere il documento (conservato nell’archivio di Stato di Modica, Tribunale del Patrimonio, Registro 6° di lettere patenti, c. 167) di nomina a capitano di una squadra di armati destinati a reprimere il banditismo. Datato 1 agosto 1627 e firmato dal governatore della Contea di Modica don Paolo La Restia : “conoscendo per esperienza ch’il tempo che la campagna se trova senza continua guardia viene continuamente ad essere molestata de ladri non solo con furti alli viandanti ma con cattivatione et compositione et altri gravi eccessi notabili in Giudicio della Giustizia et della securtà publica particularmente delle masserie et arbiarcanti che tanto importano, delle quali in puocho tempo sono stati fatti diversi furti e particolarmente la cattivatione di Manfrè Cabibbo della città di Ragusa, il quale al presente sta in potere loro havendolo asaltato cinque compagni armati essendo nella aira sua in contrada di Renda, et quelli si presero et purtaro seco”.
Un poveraccio, di ritorno da una faticosa e magra giornata di lavoro, camminava per uno stradale. Un’elegante carrozza lo sorpassò e dal nùgolo di polvere saltò fuori un piccolo oggetto. Lo raccolse e s’avvide che era un portafogli pieno di soldi.
Renato Guttuso, Contadini di Sicilia, 1960
«Ferma, ferma» urlò all’indirizzo della carrozza. Il cocchiere lo guardò storto, ma il contadino agitando il portafogli e rivolto al nobile personaggio che s’era affacciato dal portello: «Vostra eccellenza le è caduto questo!» Il ricco signore lo prese con noncuranza, lo aprì per controllare che non mancasse nulla e tirati fuori due soldi glieli offrì.
Renato Guttuso, Contadini di Sicilia, 1951
«Fesso, perché l’hai fatto?!» gli disse, fissandolo con commiserazione «se lo perdevo, anche così pieno di soldi, era come se mi avessero scippato un pelo della barba. Se te lo tenevi, avresti cambiato vita. Adesso contentati di due soldi! ». Batté con energia la mano sullo sportello e si ritrasse, senza manco salutarlo. Il cocchiere fece schioccare la frusta e i cavalli ripresero la corsa.
Renato Guttuso, Contadini di Sicilia. In: Dieci disegni sui contadini di Sicilia, Roma, Edizioni di cultura popolare, 1951
Nella notte di vento e freddo una ragazza, sola, vaga sull’altopiano. Bussa a tutte le porte: «Datemi per pietà un tizzone acceso, che io possa riscaldami al fuoco». Ma nessuno le apre, tutti chiusi nelle loro case. Attratta da una luce tremolante, si avvia verso il monte. Sotto un anfratto bivacca un pastore col suo gregge. «Datemi un tizzone di questo fuoco ardente, buon uomo» «Prendetene quanto volete» risponde pronto il pastore. Mentre ella prende il tizzone e sta riavviandosi nella notte scura, all’improvviso un lupo affamato piomba su una pecora del gregge che, malaticcia, sta in disparte; la fanciulla se ne avvede e con prontezza e coraggio scaglia il tizzone contro il lupo, che arricciato il pelo e ringhiando indietreggia e fugge via.
Il pastore che ha assistito alla scena cerca la fanciulla, ma già si è allontanata verso il monte. Incuriosito la segue e giunge nella grotta dove ella dimora: piccola, spoglia e fredda. Il pastore preso da compassione si toglie il proprio mantello e lo porge alla fanciulla. «Copritevi che stanotte fa molto freddo.» D’improvviso la grotta viene inondata di luce abbagliante, con la fanciulla che risplende nel mezzo. Il pastore resta incantato dalla visione. Racconterà poi di aver incontrato in quella grotta, poco sopra il paese, “Santa Luciuzza ‘a sirausana” che per quella notte, fredda e scura, fu anche “Santa Luciuzza ‘a ciaramuntana”!
Stampe popolari di Santa Lucia da Siracusa. La prima è di Salvatore Puccio, la seconda del figlio Bonaventura e la terza è anonima
Quello che riporto è un antico ‘cunto’ popolare raccolto, alcuni anni fa dalla viva voce degli anziani, dagli alunni delle primarie dell’Istituto comprensivoS. A. Guastella di Chiaramonte per il progetto Vi cuntu e vi cantu (2009). E quanta ricchezza ci sia in ogni frammento di cultura popolare lo dimostra, anche, questo racconto raccolto nell’area chiaramontana, che arricchisce l’agiografia su Santa Lucia con un suo ipotetico passaggio da Chiaramonte e pernottamento nella grotta che poi divenne luogo di culto.
I lupi nella notte, perenne insidia e pericolo per il gregge, erano una reale presenza nel passato; ancora è possibile trovare qualche ovile dell’altopiano protetto da aguzze pietre allineate al vertice dei muri, note appunto come paralupi. Anche il bivacco dei pastori attorno al fuoco, nella notte fredda, è un soggetto comune di quel passato di povertà e disagio; evidenziato, ancor meglio, dalla donna che nella notte bussa alle porte per avere un po’ di fuoco per scaldarsi.
Prospetto della Chiesa rupestre di Santa Lucia in un dipinto di Carmelo Battaglia. Dello stesso autore è il banner che “ripropone” com’era l’antica grotta-chiesetta.
La grotta sul monte, rifugio della misteriosa fanciulla, è realmente esistita, ed esistente oggi come chiesetta rupestre. Fu trasformata, nel XVI secolo, in luogo di culto e dedicata a Santa Lucia dal siracusano Silvestro Castronovo, da poco nominato parroco di Chiaramonte. In seguito il piccolo ipogeo con rozzo altare in pietra divenne (dal secolo scorso) una chiesetta rupestre con elegante prospetto neoclassico. Riguardo la lingua siciliana usata nel racconto, mi limito a segnalare il terrore-stupore del lupo che fronteggiato dalla misteriosa fanciulla «s’arrizza u pilu»! Per il tanto altro che si può estrarre dallo scrigno, lascio libero campo alla curiosità di ciascun lettore.
La leggenda che si lega alla chiesetta rupestre di Santa Margherita, nella omonima contrada su un altopiano prospettante la città di Chiaramonte e poco distante dall’antico abitato di Acrille/Gulfi, ci racconta le origini della comunità dedita in gran parte all’allevamento e allo sfruttamento del bosco che copriva l’intera contrada.
Una ragazza chiaramontana di nome Margherita spesso si recava nel bosco sottostante la città per portare da mangiare al padre lì impegnato a pascolare il gregge. Attraversava quel bosco un ruscello dalle limpide acque, dove erano scomparsi misteriosamente dei fanciulli. Perciò tutti i genitori ripetevano ai figli di tenersi lontano da quel luogo.
Contrada Santa Margherita, un antico frantoio
Invece Margherita, fosse curiosità o improvvisa sete, al ruscello si avvicinò. E scoprì il mistero: un enorme e terribile colubro con le fauci spalancate, pronto a inghiottirla. Con improvvisa destrezza la ragazza fece un salto indietro gridando a piena gola: «Santa Margherita soccorretemi, che porto il vostro nome!» All’istante apparve la Santa guerriera, armata di un dardo col quale colpì il serpente, uccidendolo.
La leggenda di Santa Margherita nell’interpretazione grafica di Rocco Cafiso
Attratti dalle grida della fanciulla, accorsero i pastori e i porcari che pascolavano i loro armenti nel sottobosco e videro il miracolo già compiuto. Santa Margherita li tranquillizzò e li invitò a entrare nell’antro del mostro, dove trovarono le ossa dei bambini uccisi e una gemma tanto enorme che illuminava la grotta.
«Distruggete l’antro – ordinò la Santa – e al suo posto vi sorga una chiesa». E lì Santa Margherita imprigionò il diamante.
«Chi vorrà cimentarsi nell’impresa di svelare l’incantesimo – sostenevano i nostri avi – dovrà andare scalzo nei Luoghi Santi in Palestina e lì piangere e digiunare per tre giorni e tre notte di seguito sul monte Calvario; quindi tornato a Chiaramonte sarà in condizione di estrarre il diamante per consegnarlo al Gran Turco come riscatto dei Luoghi Santi; che così finalmente verranno restituiti ai cristiani».
La grotta di Santa Margherita e un particolare del dipinto della Crocifissione
Se la storia vi ha affascinato, potrete andare in cerca dei luoghi della vicenda. Che esistono realmente come la grotta chiesetta. La vallata di Santa Margherita adesso non è più ricoperta da fitta boscaglia ma la sorgente ed il ruscello (invero un magro corso d’acqua) ancora la attraversano; e la rada macchia mediterranea si fonde con gli ulivi centenari e i numerosi alberi da frutto. La grotta al margine dell’altopiano conserva le tracce di un culto popolare; sull’unico rozzo altare è dipinta una Crocifissione che il tempo ha in parte corroso: ma le figure del Cristo, della Mater Dolorosa e S. Giovanni Evangelista ai lati, sono ben visibili. Molto meno, sulla destra, la figura di S. Margherita di cui restano solo labili tracce. Accanto alla grotta sorge l’antico fabbricato di un frantoio e all’interno dello stesso un ipogeo con visibili le tracce di un palmento o frantoio, ancora più antico.
I resti di un antico frantoio e, nel riquadro, un particolare della chiave di volta
E se scarpinando aguzzate la vista – ma ancor più la fantasia – potreste aver la fortuna di intravedere, tra la sterpaglia e la ghiaia del fiume, la “culorva” che nel passato gli abitanti del luogo asserivano esistere e alcuni anche di aver visto.
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