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Ragusa

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di Stefano Vaccaro

Il 6 dicembre 1926 Ragusa divenne capoluogo di provincia staccandosi da Siracusa. Per una piccola città meridionale l’essere diventata sede di prefettura rappresentava un salto di qualità di assoluto rilievo, a maggior ragione se questo accadeva all’improvviso, in maniera del tutto inaspettata e gratuita, deludendo le aspettative di città vicine che ritenevano avere più requisiti e storicamente più diritti.

Piazza San Giovanni

Tutto sembrava una grazia ricevuta, una festa. Negli anni successivi all’elevazione, Ragusa fu interessata da un notevole dinamismo di fabbrica per dotarla di quell’assetto urbanistico – fognature, acquedotti, case, uffici, scuole, sedi di rappresentanza – proprio di una città.

Con queste intenzioni nacque il Quartiere Littorio con Piazza Mussolini (poi Piazza dell’Impero ed infine Piazza della Libertà) a fare da centro geografico ad una serie di edifici indispensabili per il vivere comunitario e amministrativo: la Casa del Fascio, Torre del Littorio, Casa della Gioventù Italiana del Littorio, Casa del Mutilato e del Combattente, il Palazzo del Consiglio provinciale e delle Corporazioni, il Ponte Littorio. 

Costruzione di Piazza Impero (oggi Piazza Libertà)

Nel giro di pochissimo tempo, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, fu edificato anche l’ospedale civile e il tubercolosario e poco dopo il carcere giudiziario, la stazione dei treni e il palazzo delle poste a completare una mappa di servizi per la nuova funzione di tenenza.

Si decise inoltre di dotare la città di una sede adeguata all’onorificenza avuta edificando la più pregevole testimonianza dell’epoca, il Palazzo del Governo. Del progetto venne incaricato l’architetto Ugo Tarchi. Il complesso architettonico risultò sin da subito imponente, fastoso e costoso.

Palazzo del Governo (oggi sede del Comune di Ragusa)

A palazzo ultimato, la decorazione venne affidata all’artista – a cui non mancarono abilità d’artigiano – Duilio Cambellotti. Obbligati i temi: la vittoria di Vittorio Veneto e la Marcia su Roma per il Salone d’Onore, le immagini e le attività del territorio ragusano per la Sala del Camino, i prodotti della terra per la Sala da Pranzo e le vedute di Ragusa Ibla e Ragusa Superiore con i monumenti più riconoscibili, tra gli altri la Cattedrale di San Giovanni resa col doppio campanile così come pensata in origine, il Duomo di San Giorgio, il Portale omonimo, la chiesa di Santa Maria delle Scale e quelle delle Santissime Anime del Purgatorio e dell’Ecce Homo.

Nel 1985 Leonardo Sciascia fece visita alla Prefettura di Ragusa; ad affascinarlo furono le tempere “fascistissime” di Cambellotti, scampate alla damnatio memoriae per la prudenza degli amministratori, che si erano limitati ad occultarle. La loro riscoperta fu l’occasione per un racconto alla Brancati e, insieme, una rivisitazione della storia del fascismo negli Iblei, osservato nella sua trasformazione da fatto di popolo a trionfo dell’élite. 

Uno degli affreschi di Duilio Cabbellotti presenti al Palazzo del Governo (foto: Ragusa News)

Il volume che ne ricava, Invenzione di una Prefettura, uscirà due anni dopo per i tipi di Bompiani, con inserti fotografici d’epoca: la visita del re Vittorio Emanuele III di Savoia alle miniere d’asfalto di Ragusa, la prima visita di Mussolini, oltre che intense fotografie realizzate da Giuseppe Leone.

La calma, visibile in superficie, che questa parte della Sicilia ha vissuto, lontana dalle grandi rotte criminose che hanno afflitto il resto dell’isola in faide sanguinarie, per l’esclusione, almeno apparente, da certe oscure dinamiche mafiose, intrighi sovversivi o congiure mortali, seppure penetrate nel territorio con non poca ferocia.

Prima visita a Ragusa di Mussolini (foto: Istituto Luce)

Ragusa e la sua provincia hanno innescato nell’immaginario collettivo l’idea di essere così al riparo dai gioghi malavitosi da meritarsi, per improperio di poca lusinga, l’appellativo di “provincia babba” giacché – avrebbe scritto Bufalino con pungente ironia – “nel ragusano il numero dei morti ammazzati è vergognosamente basso rispetto a qualunque altro sito dell’Isola“.

Sulla mitografia della provincia “babba”, a voler significare bonaria, innocente, priva di malizia, si sofferma anche Sciascia cogliendo la contraddizione di senso che insiste nel definire “babbo” ciò che è riconosciuto essere tranquillo ed apprezzato.

“un numero di morti vergognosamente basso” ma tra questi ricordiamo l’assassinio del giornalista Giovanni Spampinato

Guardando a Vittoria, lo scrittore individua la linea di confine o il muro di Semiramide, non privo di crepe, in cui si arresta una Sicilia che alcune belluine espressioni di violenza vorrebbero ostile finanche spietata. Al di là di tale frontiera comincia, ci piace credere, un’altra Sicilia, una Sicilia diversa.

La seconda parte dell’articolo di Stefano VaccaroSciascia e la Contea di Modica (II parte)

di Vincenzo La Monica

Sarà visitabile fino al 17 dicembre presso il Centro Commerciale Culturale di Ragusa “Solitudini e moltitudini” una mostra fotografica che contiene 50 scatti di Giuseppe Tumino. L’autore di professione videomaker vive da anni in Lucania, ma è rimasto legato alle sue origini iblee. I suoi scatti, finora consegnati ad Instagram, sono diventati una mostra curata da un gruppo di amici ragusani. 

Il titolo della mostra è rubato a Friedrich Nietzsche che ci ammoniva dalle pagine di “Umano troppo umano” con una sentenza terribile: “Nella solitudine il solo divora se stesso e nella moltitudine lo divorano gli altri”. Quel sorridente distruttore di filosofie, nonché assassino di Dio, aggiungeva beffardo: “Ora scegli!” 

Ecco, posti di fronte al dilemma, l’invito è quello di scegliere Giuseppe Tumino che, come in un salmo cristiano o in un western degli anni ‘50, viene a salvarci quando tutto sembra perduto. 
A volte sembra che Giuseppe abbia la capacità di viaggiare nel tempo. Possibile che nell’era del digitale esistano ancora i bikini all’uncinetto, le donne con le fascine di legna sulla testa, i Supersantos, il gioco delle bocce, i viaggi in treno, le MotoApe, il Cristo in processione e i comunisti con falce, martello e Che Guevara? 

Altre volte sembra invece che sappia fornire una chiave di lettura del reale capace di accoglierci all’uscio di verità inesplorate. Quale regalo sta chiedendo l’anziana signora al Babbo Natale senegalese? Su quale orizzonte comune si imbriglia lo sguardo velato delle ragazze mediorientali? A cosa pensano gli anziani più rassegnati del mare d’agosto? Cosa sanno in più di noi gli animali che abbiamo scelto per consolare la nostra solitudine? Su quale fede si incide un tatuaggio? Quale attesa sarà presto interrotta da una lenta rotazione della macchina da presa?

Il nostro autore lascia che il perturbante si sprigioni dalle sue foto, ma vi distilla all’interno l’elemento sghembo, l’antidoto infallibile dell’ironia, il balsamo dell’affetto, la cura della relazione autentica tra gli esseri umani. Tutto il campionario di qualità, insomma, che è solito mostrare nelle serate tra amici. 

Osservando le foto in mostra sarebbe lecito, in fondo, sospettare il senso di una concezione dolente della vita, ma ci vuole poco ad accorgersi che lo sguardo è sempre quello del bambino che sorride con l’occhio dietro una vecchia cinepresa Canon ricevuta in dono per Natale dal papà. I protagonisti delle sue foto sono le seconde linee della vita, i caratteristi, i marginali. E li tratta con la curiosità e il rispetto dell’antropologo. O come volesse riproporre nel terzo millennio l’impresa di quell’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov con cui, da perfetto cinefilo, si identifica. Come lui capace di prendere la vita di sorpresa, servendosi di quel radar che accomuna gli artisti e i pipistrelli e che lui adopera  per evitare gli ostacoli della retorica, della tristezza, della rabbia, della noia.
Insomma una mostra di Giuseppe Tumino è un incontro con un supereroe alla Batman. Non perdetevela! 

di Letizia Dimartino

Mio padre andava a comprare la ricotta nelle masserie. I cani gli andavano incontro abbaiando ringhiosi ma lui gli diceva: “ciao Napoleone!” E subito abbassavano la testa e gli odoravano le punte delle dita delle mani in sottomissione. La stanza era come nera, il fuoco forte, la ricotta tenera dal bianco inconfondibile. Ci andava nei pomeriggi d’estate quando gli odori della campagna erano più forti, le basole scivolose, i capperi in ciuffi lungo i muri, i covoni nelle chiuse gialle.

Il tramonto arrivava lento, i bimbi avevano guance rosse rosse e giocavano a terra vicino al paiolo (a caurara). I carrubi in controluce si facevano neri, il silenzio intorno era la bellezza di quelle campagne. Il cielo lucido, il mare in fondo un rigo blu. Ci mettevamo in macchina dopo aver salutato, le massare ci guardavano andare via appoggiate all’arco della porta, il grembiule sporco, il rosario in mano, la preghiera sommessa

(foto ragusanews.com)

Oltreimuri.blog va in ferie per due settimane: le rubriche e gli articoli riprenderanno da inizio settembre. In questo lasso di tempo vogliamo però riproporre alcuni articoli pubblicati nei due anni di vita. Buona rilettura. E buone vacanze a chi le inizia ora o le ha in corso. A rivederci!

di Giuseppe Cultrera

Certo il posto è suggestivo: una cava incontaminata con una serie di ipogei di epoca paleocristiana e bizantina, un pigro torrente che scorre a fondo valle tra ciottoli bianchi e crescioni e nel dedalo di stradine annaspanti tra stretti e cadenti muri a secco, maestosi carrubi secolari, ruderi di edifici rurali, resti di abitati medievali, ricoveri segreti di antichi e misteriosi briganti. E una antica masseria con al centro la “turri ‘i Rrenna” avanzo di un castello feudale. Nucleo centrale di un ex feudo di 300 salme che un manoscritto del canonico G. Boscarino ricorda ormai incolto e abbandonato, ricovero nel passato di briganti che avevano occupato gli aggrottamenti. Con una storia – anzi due o tre – insolitamente pepate.

monaci rubacuori
Ragusa: contrada Renna

Queste terre l’abitarono dei monaci che stavano nella torre, dicevano messa nella chiesetta accanto, confessavano massari e contadini della zona; ma specialmente stavano attenti a non farsi arrubbare dai mezzadri e braccianti che coltivavano il loro feudo. Tutti chiesa e casa di giorno. Di notte, quando nessuno poteva vederli, briganti di roba e di donne. Rubavano di tutto a man bassa, ma la loro passione erano le belle donne, specie quelle giovani. E guardate come facevano. 

Se una massarotta andava a confessarsi, arrivato il momento della penitenza il monaco biascicando con sussiego la penitenza, diceva che data la particolarità del peccato non poteva assolverla subito, anzi dopo aver ottemperato alla penitenza a casa, necessitava che ritornasse il pomeriggio per riconfessarsi onde avere finalmente l’assoluzione.
Quando la sfortunata vittima ritornava il vespero a confessarsi, entrava in chiesa e non usciva più. E non capitava a una o due, erano in tante a sparire, specie tra le più belle e giovani.

monaci rubacuori
Stampa popolare (sec. XVIII)

Non vi dico l’angoscia delle ignare donne oggetto di concupiscenza, spasso e crapula, di questi monaci birbanti. Che quando avevano finito di scapricciarsi le chiudevano in un sotterraneo e tornavano a caccia di roba fresca.

I contadini, incapaci di venire a capo delle numerose sparizioni di mogli e figlie, andarono a consigliarsi con il guardiano (non lo sapevano, poveretti, che era il capo opera!) che con voce roboante e strabuzzando gli occhi:
“Sciocchi! Che cercate? È opera degli spiriti maligni, questa. La tentazione del Maligno se l’è portate via.”

Restarono come allocchi. Ammutoliti si guardavano l’un l’altro tentennando il capo. Poi andarono via.
Ma la cosa andava a peggiorare, perché ne sparivano sempre più, nonostante i massari e contadini della zona mettessero la massima attenzione a proteggere le loro donne. I mariti finirono per restare persino a casa, per proteggere moglie e figlie femmine.

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Uomo che trova un tesoro nascosto. Stampa del secolo XVII

Accadde, però, che una giovinetta dolce e bella come uno zucchero, volle andare a confessarsi e il padre temendo che gli spiriti durante il tragitto potessero rapirla, volle seguirla. Così l’accompagnò fino alla porta della chiesa e restò ad aspettarla. Si fece notte e la figlia non usciva. Risoluto il contadino entrò, ma non vide nessuno. Allora infuriato chiamò i monaci e ne chiese conto: “L’ho vista entrare con i miei occhi!” Ma quelli, sornioni, “Vostra figlia a quest’ora sarà a casa. È uscita e non ve ne siete accorto. Vedete, qua dentro non c’è anima viva!”

Il povero padre se ne tornò speranzoso a casa. E come era prevedibile non trovò la figlia. Ma la voce che si era sparsa fece accorrere gli altri massari e contadini, che armatisi di bastoni, falci, tridenti si avviarono alla torre di Renna decisi a fare chiarezza una volta per sempre:
“O ci fate vedere tutte le stanze – intimarono ai monaci – o vi facciamo la pelle.”
I monaci per dimostrare la loro buona fede e che non avevano soggezione, spalancarono le porte e li fecero entrare in tutte le stanze.
Ma non trovarono nulla. Anche quando scesero nei sotterranei, nisba!
“Avete visto che qui non c’è nulla?”

monaci rubacuori
Cava Renna: un ‘muragghiu’ e una edicola votiva campestre (a destra)

Massari e contadini se la presero allora col padre della picciotta: “Chissà dove se n’è andata tua figlia!”

“No – urlava il povero padre – vi giuro, l’ho vista entrare qui. Non è potuta volare, qua deve essere!” E mentre parlava gli occhi si soffermarono su una grande valata in un angolo, che al centro aveva un anello. Risoluto afferrò l’anello, sollevò la botola e vide una scala in pietra che scendeva sottoterra: urlò il nome della figlia ed ebbe la sensazione di sentire delle voci che rispondessero. Corse verso il sotterraneo mentre gli altri, afferrati i monaci, li legarono come salami e subito dopo seguirono l’infelice padre.  Sotto c’erano tutte le donne sparite (c’erano anche parecchi bambini: i figli che le sventurate avevano avuto coi monaci): li tirano fuori e al loro posto ci ficcarono i monaci.

Non finì: il padre della picciotta, furente, andò a Palermo dal Re: “Giustizia maestà!”. E l’ebbe. Perché il Re non solo fece ammazzare i monaci perversi, ma diede in censo a quei contadini e massari le terre confiscate.cava Renna

Nei sotterranei del castello restò incantesimato un tesoro – una ninfa (lampadario) tutta d’oro massiccio – che viene custodita dagli spiriti dei briganti che abitarono quei luoghi o da un monaco, anima dannata di uno di quegli altri briganti che rubavano anche donne.

Una volta quattro fegatosi, due mascoli e due femmine, s’avventurarono nel sotterraneo muniti di corde e lampade all’acetilene: dopo un arduo percorso giunsero a una serie di cammare tutte ricavate nella roccia e qui si presero un bello scanto, perché le lampade spentesi di colpo non ci fu verso di riaccenderle; e per ritrovare l’uscita solo Dio sa come ci riuscirono, con quello scuro che si tagliava a fette. E fu tanto lo scanto che tutti e quattro caddero malati!

Ma qualcuno, a mezza voce, racconta che una partita invece superarono quelle stanze (ora non più raggiungibili perché intasate di materiali) e nell’ultima trovarono un monaco che li aspettava a braccia aperte: voleva abbracciarli, il buontempone! Che se l’avessero fatto l’avrebbero sbancata la trovatura e si sarebbero arricchiti come pascià. Invece si scantarono e se ne tornarono di prescia indietro: restando con l’occhi cini e le mani vacanti!

Pertanto anche questo tesoro incantesimato, aspetta un predestinato.

cava Renna
Cava Renna

Due note a margine:
Torre di Renda: La Torre, la chiesetta e il fabbricato rurale assieme al vasto feudo furono proprietà del Collegio Gesuitico di Modica, pervenuti probabilmente per eredità del P. Girolamo Renda Ragusa (1665-1727), scrittore e storiografo di quell’ordine. Il toponimo cava e contrada di Renna, è la corruzione popolare del nome del famoso gesuita. Soppressione dell’ordine (sul finire del ‘700) e conseguente alienazione del fondo, nell’immaginario popolare si combinò con la presenza di monaci birbanti, briganti che nascondevano refurtive e tesori sepolti nei meandri della terra.
I briganti: Nelle grotte adiacenti, si tramanda, anticamente si nascondevano dei briganti che operavano scorrerie nelle regioni limitrofe. E forse, come è usuale nei sostrati leggendari, c’è del vero: per lo meno a leggere il documento (conservato nell’archivio di Stato di Modica, Tribunale del Patrimonio, Registro 6° di lettere patenti, c. 167) di nomina a capitano di una squadra di armati destinati a reprimere il banditismo. Datato 1 agosto 1627 e firmato dal governatore della Contea di Modica don Paolo La Restia : “conoscendo per esperienza ch’il tempo che la campagna se trova senza continua guardia viene continuamente ad essere molestata de ladri non solo con furti alli viandanti ma con cattivatione et compositione et altri gravi eccessi notabili in Giudicio della Giustizia et della securtà publica particularmente delle masserie et arbiarcanti che tanto importano, delle quali in puocho tempo sono stati fatti diversi furti e particolarmente la cattivatione di Manfrè Cabibbo della città di Ragusa, il quale al presente sta in potere loro havendolo asaltato cinque compagni armati essendo nella aira sua in contrada di Renda, et quelli si presero et purtaro seco”.

cava Renna
Ragusa. Contrada Renna (Ph: Giovanni Tidona)

Banner: Foto di Giovanni Tidona

di Giusi Pizzo

Luglio, da almeno un decennio (fateci caso), è il mese delle fake news sulla scuola. Alle notizie palesemente false o riportate male seguono, secondo un copione consolidato, le sentenze sull’inutilità della scuola, sull’inettitudine degli insegnanti e sull’ignoranza degli alunni misurata dall’Invalsi e decretata dal titolone in prima pagina delle riviste specializzate ad “orientare” l’opinione delle persone sulla scuola pubblica.

Anche gli articoli che non parlano di scuola, a luglio, si concludono con un’accusa alla scuola. Poco fa ho letto sul web qualcosa in merito al fenomeno antropologico di un gruppo di persone in cui si riconosce un certo disagio e il cui tratto comune, si dice nelle prime righe, è quello di essere “poco scolarizzate”. Ebbene, l’articolo termina così: “Infine, un altro aspetto evidenziato dall’antropologia è il fallimento della scuola che fornisce modelli culturali sbagliati e va decostruita”. Così. Una conclusione frettolosa e in contraddizione con quanto detto prima: o tali persone non sono andate a scuola e allora la scuola non ha colpa del loro disagio, oppure sono andate a scuola e il loro tratto comune non è la scarsa scolarizzazione. Tertium non datur!

La logica non è cosa facile. A proposito di logica, capita pure, con i conoscenti social, che se un giorno ti va di scrivere su Fb “oggi ho fatto le lasagne”, puntualmente arriva il commento di chi, seguendo un filo logico misterioso, sente l’urgenza civica di ricordarti come l’Anticristo si sia già manifestato attraverso la scuola! Va bene, vuol dire che non farò più le lasagne.
Le pseudo notizie si susseguono ad un ritmo incessante, destinato a rallentare solo a fine agosto, quando il problema capitale della depressione da rientro dalle vacanze, dei rincari delle bollette e delle pandemie incombenti, richiede legittimamente spazio e attenzione.

Luglio, quest’anno, però ritorna anche ad essere il mese della Maturità, del compito di Italiano e della seconda prova. E del colloquio finale. In verità, il Miur ha lasciato pressocché invariato quest’ultimo: un’accozzaglia di cose costrette a stare insieme con l’ospite inquietante, lui, il PCTO (ex Alternanza scuola -lavoro). Il racconto delle esperienze fatte in seno al PCTO, richiesto ai candidati, ricorda una surreale scena raccontata da Bulgakov ne “Il Maestro e Margherita”, in cui l’Autore descrive, quasi materializzandolo fisicamente, il senso della stanchezza che segue alla ripetizione ossessiva di un gesto (Margherita che per ore e ore stringe la mano agli ospiti). Tanto che, alla fine del capitolo, il lettore chiude il libro, sfinito e privo di forze. Anche le commissioni d’esame chiudono stremate dai PCTO.

Ed è proprio attraverso il mio sguardo sul famigerato colloquio che vorrei tentare una narrazione diversa poiché è sempre più facile racchiudere dentro categorie semplificanti o tenere gli occhi aperti solo sugli aspetti negativi della faccenda, per rafforzare e perpetuare la “vulgata” comune, cioè che la scuola, come qualcuno ripete e fa ripetere, “fa schifo” e che l’esame di maturità è una farsa.

Forse il colloquio può avere due significati. Nel primo caso, può essere solamente il finale atto formale di un procedimento burocratico atto ad assegnare una valutazione numerica, veloce, asettico e glaciale. Non c’è nulla di male, s’intende, se quella pratica razionale e aritmetica ha come esito una corretta valutazione che tenga in giusto conto impegno, performance e grado di maturità dell’allievo. Tuttavia, anche il sistema oggettivo e matematico può incepparsi se, nelle commissioni malamente assortite dal punto di vista umano, si mette in scena l’atto unico del teatrino degli individualismi e della lotta eroica per far prevalere una volontà sull’altra. In passato accadeva spesso.

(Foto da orizzontescuola.it)

Nel secondo caso, il momento del colloquio, per i docenti interni, può diventare occasione per ricevere “il feedback dei feedback” sulla loro azione educativa e, per gli alunni, una sorta di prova generale, metafora dell’approccio futuro agli ostacoli e alle situazioni problematiche che incontreranno quotidianamente. Ma questo può sembrare solo retorica e forse lo è.
Il miracolo più bello a cui può accadere di assistere è che l’impegno, il lavoro, la dedizione, il peso e lo spazio dati alla relazione umana prendano forma nelle parole e negli occhi dell’esaminando/a.

Un collega ha simpaticamente individuato e descritto, nel suo Diario d’esami, le tipologie di esaminando (l’intortatore, il genio, il poeta e così via). Mentre leggevo, pensavo di aggiungerne alcune, poi mi sono detta che le mani tremanti sul foglio, l’intelligenza illuminante, la sicurezza di chi ha già trovato la sua strada, la fragilità di chi è ancora alla ricerca di risposte, la sfida vinta con la propria timidezza, la teatralità dei gesti, la profondità o la superficialità, il tormento o la serenità con cui hanno affrontato questo evento, sommati a quei contenuti culturali e scolastici di cui hanno parlato o non parlato, rendono unico ciascun esaminando, collocandolo al di fuori da ogni categoria descrittiva o preconcetta.

(Foto ilfattoquotidiano.it)

E in fondo il colloquio non serve a classificare ma a capire dove la tua parola ha scavato e trovato casa, cosa ha prodotto il tuo esempio, se la mano che hai teso o hai ritirato ha costruito ponti o innalzato muri. Serve a capire fino a che punto loro sono disposti a crederti e a lasciarsi accompagnare ancora, mentre, nello spazio di 50 minuti, ti affidano speranze, paure e sogni.
Se proprio dovessi circoscrivere la loro unicità e raggruppare per categorie, potrei ricorrere a tre sole opzioni:
1. alunni che ricambiano il dono prezioso e doveroso della fiducia, dell’ascolto, del dialogo, della cura, della stima che genera autostima;
2. alunni che nonostante quel dono decidono di non restituire nulla;
3. alunni a cui si recidono le ali, con i pregiudizi mortificanti e con una comunicazione svalutante.

(Foto studenti.it)

Il colloquio, se c’è onestà da parte di tutti i suoi attori, è una sorta di baconiano experimentum crucis e permette di verificare quale, tra le varie opzioni, sia vera.
Qualora risulti convalidata la seconda, c’è poco da fare. Su chi e perché ha generato l’ultima tipologia di alunni, che come i primi tendono a restituire quello che hanno avuto, corre l’obbligo (per tutti) di interrogarsi. La validità della prima spiega invece la gratificazione, la reciprocità della gratitudine, il coinvolgimento emotivo. E ciò che riempie, arricchisce e restituisce il senso autentico dell’educare, non può essere una farsa.

di L’Alieno

Oh Dio! Quanto tempo è passato? Alla notizia della morte di Luciano Nicastro, mio indimenticato professore di storiafilosofia al liceo, mi sono piovuti addosso una valanga di ricordi e pensieri riposti alla rinfusa, in un vano ormai polveroso della memoria.

Socialista onestissimo (cosa affatto scontata ai tempi, mi si conceda la battuta), “cattolico adulto”, per usare un frizzo prodiano di almeno un ventennio dopo, sei stato uomo e professore fuori dagli schemi. Un fuoriclasse. Entravi in aula nelle fredde giornate d’inverno con il tuo mitico colbacco e il pizzetto ancora nero. Mi ricordavi un intellettuale russo, dissidente, materializzatosi in terra iblea chissà per quale magia.

Uno sguardo di pochi secondi alla classe, un sorriso sornione e subito giù con la prima battuta sul primo “malcapitato”. Battute simpaticamente ironiche le tue. Taglienti, ma mai offensive per nessuno. A volte autoironiche, come quel giorno di pioggia, lì, vicino alla finestra, a pochi mesi dalla formazione del governo Craxi… “piove, governo ladro!”, esclamasti, interrompendo la lezione tra le nostre risate.

Non ricordo mai un tuo urlo. La tua auterovolezza era così fortemente percepita in classe che ti bastava un segno della mano per avere l’attenzione e far cessare ogni brusio. Non avresti sfigurato nell’antica Grecia, a discutere con Platone o Aristotele. Anche se il mio ricordo più bello sono state le tue lezioni su Kant, il quinto anno. Si studiava quasi in esclusiva sui tuoi appunti e per responsabilizzarci esigevi soltanto volontari nelle interrogazioni. Funzionava alla grande.

Luciano Nicastro (secondo da destra) in un pubblico dibattito a Chiaramonte a fine anni ’70

L’amore per la filosofia per me fu questione di un attimo. Dalla prima lezione. Dal primo quarto d’ora. Mi ricordo persino i pensieri di quel primo giorno. Per quale bestialità la filosofia si studia solo a partire dal terzo anno di liceo? Già, domanda tutt’oggi senza risposta. O forse no. Non sia mai si possa imparare a ragionare troppo in fretta o, comunque, troppo… Meglio fare spazio a materiucole più “pratiche” o alla religione.

Ti ho rivisto dopo tanti anni a Chiaramonte, circa un decennio fa, in una serata di quella che fu una buona idea: il “Festival di filosofia”. Mi riconoscesti quasi da subito: “don Peppino?” Il pizzetto era diventato bianco, i (radi) capelli pure, ma lo stile sempre quello: inimitabile.
Buon viaggio, professore. Grazie per esserci stato. La terra ti sia lieve.

L’Alieno è una rubrica settimanale tenuta da Giuseppe Schembari (vecchio allievo di Luciano Nicastro al Liceo Scientifico “E. Fermi” negli anni ’80).

di Vincenzo La Monica

“C’è tempo” è il titolo di una luminosa e toccante canzone di Ivano Fossati. Da qualche mese, però, è anche il nome di un luogo. Per l’esattezza un centro ricreativo voluto dalla diocesi di Ragusa per creare occasioni di incontro in favore di tutte quelle persone che vivono situazioni di solitudine ed emarginazione dovute ad età, malattia o percorsi di vita.

La proposta prevede l’alleanza tra la Caritas diocesana, l’Azione Cattolica e la Parrocchia San Pier Giuliano Eymard che ha messo a disposizione i propri locali di Via Vittorio Alfieri, 48 a Ragusa. Gli stessi sono stati opportunamente arredati e forniti di PC e rete internet, ma anche di carte da gioco, abbonamenti a riviste, tavoli di ping pong, giochi da tavolo e macchinette per il caffè, in una singolare mescolanza di antico e moderno.

“Vogliamo che ‘C’è Tempo’ dice il direttore della Caritas Domenico Leggio – diventi un punto di incontro e socializzazione per i tanti invisibili che si trovano in condizione di solitudine perché senza dimora, ex detenuti, soggetti a dipendenze o semplicemente perché anziani e privi di una rete familiare. In questo senso lo spazio avrebbe anche funzione preventiva, occupando parte del tempo morto che queste persone si trovano a vivere per troppe ore in solitudine e che le conduce spesso all’abbandono della cura di sé o a stati depressivi.”

L’idea di un centro aggregativo è nata dalla riflessione su uno dei tanti nervi scoperti dalla pandemia di COVID 19. All’interno dell’unico bisogno di socialità e supporto educativo che ha riguardato tanti di noi, è emersa una platea di persone fragili molto eterogenea. E tra le fragilità silenziose si è imposta con forza quella degli anziani, soprattutto per quelle situazioni in cui si sommano alla solitudine per vedovanza e lontananza degli affetti familiari, situazioni di povertà economica e relazionale che generano un vortice di esclusione centrifuga che tiene fuori queste persone dalla vita comunitaria. Per avere un’idea della portata di questo bisogno, basti pensare che nel Comune di Ragusa secondo il dato ISTAT al 31/12/2021 il 23,3% della popolazione ha più di 65 anni e l’11,5% ha più di 75 anni.

Venuti meno i luoghi di incontro tradizionali (circoli, sedi di partito, dopolavoro etc.) “C’è tempo” introduce come principio cardine per gli anziani una proposta di scambio intergenerazionale, reso possibile inizialmente dai giovani in SCU presso la Caritas, poi dal gruppo Young Caritas composto da giovani under 25 e dai tirocini con le scuole e le Facoltà del territorio.

“Si comincerà – dichiara il coordinatore di progetto Emiliano Amico – con dei mini corsi per l’alfabetizzazione digitale per PC e smartphone, rivolto sia ad adolescenti che ad adulti. Per l’estate abbiamo anche in cantiere incontri sull’astronomia e vari momenti di convivialità. La bellezza di questo spazio, però, è che siamo di fronte a un luogo intergenerazionale, dove si può respirare un’aria di famiglia e di fraternità, dove non è importante ciò che si fa, ma conta stare bene insieme e sentirsi accolti. La programmazione darà sostanza e renderà piacevole il tempo che impiegheremo insieme, ma le attività devono essere soprattutto uno strumento per creare legami.”

Tra le iniziative in cantiere ha una particolare rilevanza la costituzione di una raccolta di memorie orali, registrate, catalogate e rese disponibili a tutti sul web per far sì che il patrimonio culturale, storico, sapienziale dei nostri nonni non vada disperso, ma venga reso disponibile alle nuove generazioni, agli studiosi, alle scuole. Tutte le persone che lo vorranno saranno invitate a raccontare, come in un diario, il proprio ricordo di eventi autobiografici, storie familiari, eventi della grande Storia che incontra la storia dell’uomo comune, racconti della tradizione, spiegazione di detti popolari, leggende etc.

di Giuseppe Cultrera

Era essenzialmente un affabulatore, Mimì Arezzo. E un operatore culturale. Anzi le due cose insieme, mediate da ironia e disincanto. Amava la gente. Incontrare più che scontrarsi (e la sua passione politica, nella maturità, si incanalò in questo solco). I libri, la scrittura, “la narrazione” della polvere del tempo degli uomini e delle pietre, furono la personale cifra etica.

ragusa da amare
Mimì Arezzo (Ragusa 1946 – 2011). La copertina di Ragusa un secolo fa, che contiene il suo testo ‘La polvere del tempo’

In Una Ragusa da amare, la fortunata trasmissione televisiva che lo rese popolare non solo nella sua città ma nell’intero comprensorio ibleo, raccontava fatti storici, aneddoti, facezie, rievocava personaggi e momenti del tempo andato, con la levità di una favola per ragazzi. Con gli altri ospiti in studio, accomunati da ricordi e passioni comuni, quegli spunti trovavano sintesi e letture attuali e propositive: una topografia dell’anima di una comunità. Quella ragusana in primis, ma ogni altra di questo lembo estremo d’Italia, in definitiva.

ragusa da amare
Il primo e secondo volume di Una Ragusa da amare

Divennero sei volumi con lo stesso titolo; un prezioso scrigno di ricordi e di buon umore da centellinare come il buon vino o il buon cibo: perché della vita, come dicevano i nostri antichi, tolti gli affetti e i valori, solo questi barbàgli ci restano!ragusa da amare

Della sua attività di editore, prima con Il Gattopardo e poi con la Mimì Arezzo, restano decine e decine di interessanti e intriganti volumi. Assieme facemmo Ragusa un secolo fa (1997) un album illustrato da antiche cartoline, del quale curò il testo introduttivo La polvere del tempo. Qualche giorno fa – a proposito di polvere del tempo – rassettando alcune carte ho trovato un opuscolo relativo a una mostra del libro all’interno di Ibla viva (ricordate?) nel lontano 1985: organizzata da lui, ospitava le piccole case editrici operanti nella provincia di Ragusa. Lo ricordo freneticamente diviso tra questa mostra, le serate al Pentagramma, altra sua creatura, e la cura dell’ennesima rivista (Il Giufà, mensile satirico, negli anni successivi fu una palestra per umoristi e grafici iblei).
Ci manca la sua vulcanica progettualità: ma ancor più il suo pacato disincanto etico e politico.

ragusa da amare
Una Ragusa da amare sono sei capitoli di storia arte e tradizioni locali che vanno dagli svaghi (ad esempio il dopoguerra, il mitico Washington, le sale da ballo, il carnevale) ai detti antichi (le frasi celebri, i luoghi comuni, le ‘nciurie). Il terzo volume tratta di storia locale; mentre il quarto è dedicato a “Cunti e leggende”. Il quinto parla di arte, fede e personaggi: un tuffo in tradizioni e usanze a molti sconosciuti. Infine, la sesta sezione è dedicata alla cucina ragusana

di Giuseppe Barone

C’era una volta la Camera di Commercio. Non sempre ha funzionato al meglio, anzi è stata accusata spesso di essere una struttura autoreferenziale che ha garantito lucrosi emolumenti ai propri dirigenti, di essere stata anche permeabile a nomine politiche, di non avere avuto quel ruolo propulsivo per le imprese previsto dal suo stesso statuto. Si tratta di accuse largamente ingiustificate. La verità è ben altra. Da quasi un secolo l’ente di Piazza Libertà ha rappresentato l’istituzione più vicina all’economia del territorio, un vero e proprio “municipio delle imprese” al servizio delle attività produttive.

L’edificio della Camera di Commercio di Ragusa nel ventennio fascista, quando era la Camera delle Corporazioni

Mostre aziendali, convegni tematici, esposizioni e fiere, assistenza giuridica e fiscale alle aziende, internazionalizzazione, politiche di marketing e di tipicizzazione dei prodotti: la Camera ha accompagnato lo sviluppo agricolo, industriale e terziario dell’area iblea, promuovendo i caratteri originali del “modello Ragusa”, basato su un tessuto virtuoso di piccole e medie imprese, come ho avuto modo di sottolineare qualche anno addietro (2015) in un volume edito da Unioncamere da me curato.

Poi hanno cominciato a litigare per le “poltrone”: i rappresentanti veri e presunti di artigiani, agricoltori, commercianti, imprenditori, esponenti sindacali, per faide interne sono riusciti a distruggere l’immagine stessa della Camera. Finché una malaugurata legge nazionale ha disarticolato il sistema camerale italiano , “regalando” all’ente di Ragusa un assurdo accorpamento con la Camcom di Catania. Abbiamo così perduto un pezzo della nostra identità, senza che nessuno abbia alzato un dito per chiedere ragione o protestare. Anzi alcuni notabili di mezza tacca ed amministratori locali hanno favorito lo scempio istituzionale per guadagnarci qualche incarico di sottogoverno. E la brutta storia continua ancora oggi con l’ ulteriore accorpamento con Trapani. Misteri della geografia e della politica!

(foto ragusaoggi.it)

C’era una volta l’Area di sviluppo industriale. Quante speranze , quante energie mobilitate per l’industrializzazione della Provincia dopo la legge 634 del 1957! Quì le lotte di campanile sono state però acerrime, per spartirsi i fondi pubblici destinati ai tre Nuclei di Ragusa, Modica e più tardi Vittoria. Ovviamente il capoluogo ha fatto la parte del leone, l’area Modica-Pozzallo ha dovuto attendere tempi biblici, l’Asi e’ stata presto occupata dai partiti e dalle loro clientele, e nel 2010 l’ incapacità delle Amministrazioni comunali di eleggere gli organismi dirigenti ha portato al commissariamento dell’ente.

Nel 2011 Confindustria si e’ sfilata da una gestione poco trasparente delle Asi siciliane , mentre nel 2012 la Regione ha istituito per legge l’Irsap (Istituto regionale per le le attività produttive), di cui anche l’Asi iblea è diventata appendice periferica. Non mi soffermo sulle vicende interne all’ente per carità di patria. Oggi le sterpaglie fanno bella mostra nei lotti abbandonati dei Nuclei in attesa dei finanziamenti promessi e arrivati col contagocce. Soprattutto l’Irsap non è più riuscito ad esprimere una progettualità delle forze produttive locali e si è adagiato nella pigra rendita di posizione di un ente regionale burocratico . Un’altra realtà lasciata a metà e senza un futuro plausibile.

C’era una volta la Provincia. In altri tempi non ho mancato di esprimere giudizi molto critici su questo ente, che non ha interpretato al meglio le aspettative delle città circa un sistema di sviluppo diffuso, preferendo concentrare sul capoluogo o distribuendo male le già scarse risorse, in parte dirottate verso sagre e feste paesane. Nell’ultimo mezzo secolo Presidenti, Giunte e Consigli di viale del Fante non sono riusciti a dotare il territorio delle indispensabili infrastrutture, collocando l’area iblea al penultimo posto a livello nazionale per viabilità.

Il palazzo della Provincia di Ragusa

Eppure di Provincia si sente più che mai il bisogno. Manca oggi la cabina di regia , il livello intermedio della programmazione e della “governance”, che un’ ottusa legislazione nazionale e regionale ha sacrificato all’altare di un’ipotetica “spending review”. La decisione di abolire le Province e poi di tenerle in piedi ma svuotate di risorse e di poteri è stata un’ altra scelta scellerata del Parlamento italiano.

Diciamolo con franchezza: andrebbero ridimensionate piuttosto la Regione e le sue incompetenti burocrazie, invece di ridurre le strutture amministrative intermedie come le Province. La proposta di sostituirle con i nuovi Liberi Consorzi sarebbe stata interessante, ma una pessima legge regionale del governo Crocetta ha trasformato un’opportunità in farsa politica e così tutto è naufragato: un gran rumore per nulla! Crolla così un altro pezzo del “modello Ragusa”.

(Immagine inchiestasicilia.com)

C’erano una volta le imprese. E quì davvero il discorso diventerebbe troppo lungo. Mi impegno sin da ora a ritornarci. Ma è a tutti evidente che l’originale sistema delle piccole e medie imprese, vanto del territorio ibleo, nell’ ultimo quindicennio è andato in frantumi sotto i colpi della crisi economica e di una disordinata globalizzazione che ha scompaginato storie e culture d’ impresa. L’agricoltura della “fascia trasformata” abbandonata alla concorrenza selvaggia dei paesi mediterranei, la mancata ristrutturazione delle aziende industriali, la scomparsa o il semifallimento delle banche locali, la fine ingloriosa dei patti territoriali e della programmazione negoziata hanno ridimensionato le speranze di un “modello Ragusa” basato sulla diffusione “orizzontale” e su una rete di imprese “glocali”, aperte all’innovazione ma con salde radici nella tradizione. Almeno per il momento, un poker di sfide perdute.

(foto Giorgio Colosi)

di Vincenzo La Monica

Chissà a quali approssimazioni deve sottostare una mappa dei sentimenti. E in quali rapporti con la realtà deve stare l’arte che pretende di rappresentare un sentimento punto per punto. Se c’è una scala in grado di far vedere agli altri l’amore per un quartiere, un negozio, una porta, un’abitante.

Una risposta a questi dubbi l’hanno fornita nel centro storico di Ragusa superiore, l’Associazione I tetti Colorati Onlus e l’Associazione culturale Collettivo Ocra attraverso l’organizzazione di un Festival di sensibilizzazione sociale rivolto a 10 giovani migranti con protezione internazionale, selezionati all’interno del progetto Inside aut.

Una proposta che oltre che intervenire sui temi della casa e del lavoro, inserisce anche quello dell’inclusione sociale. Quel processo che è sempre bidirezionale in quanto coinvolge sia il migrante che la società di accoglienza. Un’occasione di mutuo avvicinamento tra i destinatari diretti del progetto e la comunità più ampia è stato il Festival sociale i cui temi ispiratori sono stati proprio la mappa, il ritratto, le linee rosse e blu e il cuore.

Nella fase preparatoria le ragazze del Collettivo Ocra hanno proposto un progetto artistico studiato su diversi appuntamenti e con attività eterogenee: disegno, falegnameria, pittura, tipografia, allestimento della mostra e relativo accompagnamento per la visione della stessa. All’interno del gruppo di lavoro si è scelto di privilegiare la relazione e gli spazi di socialità, magari con studiate pause nei caffè del centro o con un saluto alla bottega vicina. Si è preferito scegliere materiali familiari e di scarto, materiali piacevoli al tatto come il legno o la carta, oppure materiali di riciclo che già contenevano in sé una storia.

Lo slogan è stato: L’arte è il pretesto, la relazione l’obiettivo finale.
Per cercare ulteriori interconnessioni con la comunità, è stato coinvolto il gruppo locale Laboratorio Insieme in Città che ha condotto il gruppo, insieme a decine di altre persone, in una passeggiata all’interno del centro di Ragusa, cuore della città e luogo di vita dei partecipanti, in modo da conoscere più a fondo il quartiere. All’evento della passeggiata, che si è tenuto il 5 febbraio 2022, sono stati consegnati dei biglietti ai partecipanti, con sopra scritti aneddoti legati alle vie del centro: questi sono serviti a completare una delle mappe esposte alla mostra durante l’evento conclusivo del Festival di giorno 10 febbraio 2022, presso la sala comune della Casa delle Associazioni di Ragusa.

I ritratti hanno fornito l’occasione di guardarsi l’un l’altro, di tenere lo sguardo, di creare un’occasione di primo contatto.
La mappa ha permesso di visualizzare dove stiamo, in quale luogo abitiamo (il domicilio), quali luoghi viviamo (il quartiere), che relazioni intrecciamo con i luoghi (bar, botteghe, piazze).
Le linee rosse e blu sono state l’elemento ricorrente e che ha unito tutti i temi: sono le linee usate per disegnare il ritratto, sono i percorsi segnati sulla mappa con dei fili del medesimo colore, sono i viali, le vie ed i vicoli del quartiere. Sono, infine, le arterie, le vene e i capillari che partono dal nostro cuore e allo stesso ritornano con nuovi messaggi.
Il cuore è stato il punto di arrivo e di ripartenza: rappresenta l’emozione che si attiva durante la relazione.

Durante il festival conclusivo, la referente del progetto Elisa Occhipinti e il Collettivo Ocra hanno guidato i partecipanti alla visione dei materiali artistici realizzati, invitandoli anche a realizzare una stampa col metodo dell’incisione su tetrapak (una tecnica artistica replicabile anche a casa). Le stampe sono state imbustate e imbucate in giro per il quartiere, per dare più risonanza al progetto, rendere partecipe un numero più alto di persone e permettere che ogni sentimento possa traslocare dalla carta alla realtà.