di Pippo Inghilterra
Se entrando nell’Ospedale vecchio di Comiso, percorrete il lungo corridoio che da un lato confina con la Chiesa di Santa Maria della Grazia e, dall’altro, con lo spazio aperto di quel che resta del chiostro del convento dei Cappuccini, incontrerete una nicchia ricavata nel vano d’una porta. Lì c’è il busto di un gran vecchio con i baffi folti e gli occhi sgranati rivolti in alto.

È il busto del dott. Nicola Cabibbo (1862-1951), vecchio filantropo, che come scriveva Bufalino “Per sessant’anni – a piedi o col carrozzino – in guerra con la febbre e la morte“, visitava i malati. “Ma uscendo all’aperto, dopo aver spesso lasciato sul comodino i soldi per le medicine, il gran vecchio batteva forte sul selciato la mazza dal pomo d’argento e s’incamminava verso un altro duello, tre o quattro porte più in là“.
Nel corridoio, che un tempo era portico, si ammirano ancora i segni della storia (volte a crociera, archi, modanature di finestre superstiti) e si comprende lo spirito del luogo.

Don Niculinu Cabibbo abitava in un palazzo col portone in una sinuosa stradina selciata, sotto il “campanaru” dell’Annunziata di Comiso. Salendo da una comoda scala, in pietra di Comiso, si respira quell’aria triste e misteriosa dei palazzi disabitati. Attraversando l’infilata delle stanze, che si affacciano sulla strada larga che scende verso Piazza Fonte Diana, il viaggiatore volge lo sguardo in alto, nel cielo dipinto di un soffitto, dove campeggia il “Rapimento di Psiche”: il Dio Eros nell’atto di rapire la bella fanciulla dalle ali di farfalla in un abbraccio amoroso. La raffigurazione è la copia di un quadro ad olio, dipinto nel 1885, dal pittore francese William-Adolphe Bouguereau.

Passando poi nella stanza accanto, dalla meravigliosa carta da parati violata dal tempo, l’osservatore trova, al centro del soffitto, una Diana cacciatrice dipinta nel cielo, che aveva già visto nel Palazzo Labisi di Comiso. Le raffigurazioni centrali, dipinte nei soffitti di Palazzo Cabibbo sarebbero, per “il gioco delle somiglianze”, di Giuseppe La Leta. Mentre le decorazioni a contorno dei soffitti apparterrebbero, probabilmente, a Gioacchino e Matteo Santocono che collaborarono spesso con il La Leta.

Infine, ritornando dal corridoio del vecchio ospedale e uscendo all’aperto, ci si trova in un’ampia terrazza sulla città che era il sagrato della chiesa, con la colonna sormontata dalla croce. Da questo luogo elevato più vicino a Dio, i monaci, un tempo, potevano ammirare il paesaggio della vallata dell’Ippari, lontani dal frastuono e dalla corruzione della città.