di Paolo Monello
Ignorandone le cause scientifiche, da secoli si riteneva che il terremoto fosse il più potente dei flagelli che Dio usava per punire i peccati degli uomini e riportarli sul retto cammino. Così la Chiesa insegnava, traendo tali convinzioni sia dal Vecchio che dal Nuovo Testamento. Il terremoto infatti, insieme con la peste, la carestia, le alluvioni e tutte le altre calamità, altro non era che il maggior segno dell’”ira di Dio” per le malefatte commesse dagli uomini, quello che nell’Apocalisse segnava gli ultimi tempi prima del Giudizio.
Ma stavolta, dalle notizie che arrivavano a Palermo, sembrava che Dio si fosse accanito sulla sua Chiesa e i numeri complessivi poi confermeranno tale convinzione: risulteranno colpiti e gravemente danneggiati o completamente distrutti 2 vescovadi, 700 chiese, 22 collegiate, 250 monasteri.

E che quello fosse il senso comune in quei giorni ce lo testimonia anche il resoconto per Catania di un religioso, tale Padre Cuneo, che così scrive:
«…quello che fu di terrore più, che li maggiori danni l’hebbero le chiese, forse che per le irriverenze di esse, e per li peccati che in esse si commettevano, Dio volle dimostrare di ruinare la sua casa, perché contaminata, dovendo essere luogo santo et illibato; nelle chiese furono pochissimi quelli che si salvarono, e perchè molti havendosi ivi refugiato come luogo più sicuro, e perché era hora che si dovevano fare processioni di penitenza».
La scossa più potente, quella dell’11, si era verificata nel primo pomeriggio, quando le chiese erano piene di fedeli che imploravano la salvezza ed il perdono dei peccati da Dio, dopo le forti scosse del venerdì 9 e le altre della stessa mattina di domenica. Lo stesso interrogativo si pose per primo l’Arcivescovo di Palermo, don Ferdinando Bazan (1627-1702), nella sua accorata lettera inviata al Re il 30 gennaio 1693.

Palermitano della famiglia spagnola dei Marchesi di Santa Cruz, l’Arcivescovo Bazan si era laureato a Salamanca. Canonico di Santiago de Compostela e di Siviglia ed inquisitore prima a Cordova poi nel Supremo Tribunale dell’Inquisizione di Spagna, amantissimo delle lettere e della filosofia morale, era stato nominato Arcivescovo di Palermo da Carlo II nel 1685. Il contenuto della missiva però non si capirebbe, se non facessimo riferimento ad una particolare situazione: la Chiesa siciliana non dipendeva dal Papa, ma era governata dal Re di Spagna tramite il Tribunale della Monarchia, in virtù dell’istituto della “Apostolica Legazia”, cioè il complesso delle norme giurisdizionali di controllo sulla Chiesa siciliana, risalenti alla nomina di Ruggero il Gran Conte come legato apostolico in Sicilia da parte di Urbano II nel 1098. In ringraziamento del ruolo avuto dal Normanno nella crociata contro gli Arabi di Sicilia.

Limitata al solo Ruggero, tale concessione era stata richiamata in vita da Ferdinando il Cattolico e soprattutto da Filippo II, che l’aveva considerata uno strumento formidabile di potere sulla ricca Chiesa dell’isola. Pio V aveva cercato inutilmente di ottenerne una limitazione da Filippo II, ma il conflitto era stato fatto esplodere da Clemente VIII nel 1605 attraverso la pubblicazione del volume XI degli Annali del Cardinale Cesare Baronio, che dimostrava (peraltro sbagliando) la falsità del documento di Urbano II e contestava alla radice quindi il potere del Re di Spagna in quanto successore di Ruggero sulla Chiesa siciliana.

Nel 1605 non fu concesso l’exequatur alla pubblicazione dell’opera in Sicilia e nella disputa era intervenuto il Cardinale Ascanio Colonna, fratello della fondatrice di Vittoria, in difesa dei diritti del Re di Spagna sulla Chiesa di Sicilia. Uno dei punti di maggior dissidio era la competenza dei Tribunali, specie per i processi dei rei rifugiatisi nei luoghi ecclesiastici. Appena insediato, Bazan aveva però ripetutamente chiesto al Re il rispetto delle prerogative ecclesiastiche, spesso usurpate a suo dire dal Tribunale della Monarchia. E il Consiglio d’Italia il 20 novembre 1688 aveva stabilito che per le chiese soggette alla giurisdizione ecclesiastica arcivescovile l’istruzione dei processi ai rei dovesse essere fatta dal potere ecclesiastico (solo in caso di rifiuto o negligenza sarebbe intervenuto il Giudice della Monarchia).

Nelle chiese di Patronato Reale (quelle appartenenti allo Stato) la competenza unica era del Giudice della Monarchia; sulle “estrazioni” dalle chiese di rei appartenenti al clero regolare, i due poteri avrebbero dovuto concordare l’azione. In pratica un insieme di norme equivoche e che venivano regolarmente e dispettosamente violate dagli uni o dagli altri. Ma la vera disputa tra potere civile e religioso era soprattutto il controllo sull’enorme ricchezza del clero, favorita dalla quasi totale esenzione fiscale: un terzo dei beni siciliani era in mano alla chiesa (Tricoli).
Il terremoto aveva visto don Fernando attivissimo nell’organizzare gli atti necessari a placare l’ira di Dio. Palermo era però rimasta indenne e il 24 gennaio «Monsignore Arcivescovo, dal sentire la deplorabile rovina di tante città e terre del Regno, riconoscendo la grazia fatta dalla divina bontà alla città… fece risoluzione di manifestare con pubblica dimostrazione l’obbligo per la ricevuta grazia» (Mongitore).
Seguirono giorni di grandi solennità, con comunioni generali («solamente da mano dell’Arcivescovo… si dice si communicarono da 17mila persone») ed elemosine massicce ai poveri. Sempre il 24 gennaio «Monsignore cantò il Te Deum laudamus, con l’intervento del Viceré, Senato, Tribunali e Nobiltà; e doppo con bellissimo dialogo, cantato in onore di S. Rosolia da eccellenti musici, dimostrò la gratitudine della città verso la Santa per un beneficio tanto grande».

Contemporaneamente la grotta di Santa Rosalia fu meta in quei giorni di straordinari pellegrinaggi di migliaia e migliaia di persone. In seguito, su richiesta del Viceré Duca di Uzeda, il Senato della «Fedelissima Città di Palermo» decretò di affiancare alla “Santuzza” «por protector y Patron de la Fidelísima Ciudad de Palermo, al Glorioso San Francisco de Borja como especial Abogado de los terremotos» (15 ottobre 1693), con grande soddisfazione del Duca di Uzeda per l’affetto di Palermo «a un Santo tan grande y español». Ma a gennaio, di fronte al disastro che si andava profilando dalle notizie che man mano arrivavano a Palermo, don Fernando Bazan – come si è detto – sentì il bisogno di scrivere al Re il suo pensiero sulle cause dell’ira divina. Lo fece con una lunga lettera datata 30 gennaio, che fu minuziosamente esaminata dal Consiglio di Stato nella seduta del 27 aprile 1693 e riassunta per il Re.
(continua al prossimo appuntamento)