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Ricordi Letizia Dimartino

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di Letizia Dimartino

Mio figlio per la prima settimana mi ha portato due suoi amici milanesi ospiti. La mattina io “pretendevo” guardassero la vallata e le nuvole sulla cima dell’Etna lontana e i fiocchi di nebbia sugli Iblei celesti. Poi mangiavano al bar cannoli o brioche con gelato o torta Savoia e andavano in campagna subito dopo e assistevano ai lavori. Portavano magliette a mezze maniche e ogni tanto gli veniva sonno per la tanta aria presa. A pranzo gli facevo trovare gli anellini con le melanzane e la salsiccia nostra e i ravioli di ricotta e il sole inondava la tavola e mio marito parlava troppo di storia e dovevo interromperlo e lui mi guardava feroce. E dopo aggiustavano con mio figlio tutto ciò che non funziona in casa: tubi e rubinetti o fili elettrici e filtri di lavastoviglie.

E uscivano per salire sul campanile della cattedrale barocca, amore grande di mio figlio sin dai suoi primi anni di vita, e la sera si faceva prima rosa sulla città sottostante e la pietra si addolciva nel suo grigio monotono. La cena era tipica, il vino appena stappato, io ridevo, mio marito a tratti si incavolava, mio figlio ci faceva dimenticare tutto, i fichi d’india rubino, le mandorle tostate, la ricotta con la cannella. Mi veniva una stanchezza molle, il loro parlare nel milanese elegante, le voci mai alte, la loro città nordica da sempre amata da me. E andavo in camera più serena, i loro racconti, e quelli nostri. Mio figlio con i capelli mai pettinati. La felpa e la barba lunghissima e nera nera. Buonanotte, dicevo. E spegnevo la luce.

di Letizia Dimartino

Giacche scamosciate rigide, ristoranti pieni e fumosi, lungolaghi con foglie accartocciate, piazze vuote, filari di pioppi nelle campagne, città fumose e freddissime nei mattini. Era il nord degli anni sessanta, le insegne del Cynar e auto celesti. Noi vivevamo invece qui, col grigio delle case e le strade strette, con i negozi bui e i campanili solitari, i rosari e le mantelle sul capo, certe paure inconfessabili, certi peccati indicibili. Andavamo a scuola sospinti dal vento di tramontana. Crescevamo senza sapere.

(foto di Sicilia Giuseppe Leone)

Foto banner e social di Sicilia Giuseppe Leone

di Letizia Dimartino

Tutte le epoche hanno avuto un loro modo, un senso preciso. Una atmosfera. Una storia, certo. Mia nonna raccontava del terremoto di Messina vissuto da lei con terrore ma anche con tenerezza di bimba. E poi gli anni trenta, eleganti e folli, e riempiva i miei pomeriggi con le sue nostalgie e le foto originali. Poi mia madre che parlava della sua gioventù con entusiasmo e felicità anche se fu in tempo di guerra! Le erano rimaste solo le immagini belle di quel periodo, e metteva entusiasmo e ricchezza di particolari ogni qual volta, e cioè spesso, diceva nei nostri lunghi viaggi in treno e sempre nei suoi giorni malati e non.

Anni ’30 (foto stilemillelire.com)

E adesso faccio anche io, ascoltando le canzoni degli anni ‘50 e ‘60 e tutta la loro bellezza ritorna in me, gli odori e i pensieri e le piccole sofferenze e l’Italia attraversata in Giulietta mentre tutto rinasceva e ce ne accorgevamo, gli alberghi, le chiese con i crocifissi lignei nelle città antiche risorte, e anche i piaceri, le estati libere e gli inverni scuri. E Londra da sognare con i “movimenti” giovanili e lo scombussolamento della società che avveniva piano piano.

E poi gli anni ‘70, nel pieno della gioventù, quasi dimenticando il “piombo” di quel decennio, ma rivivendo le canzoni e le notti, i baci, gli abiti e i primi trucchi degli occhi, e gli sguardi allo specchio e i viaggi per l’Italia in ferrovia e gli ospedali e i medici belli e vicini e pure distanti, le piazze e le stazioni, le bombe e le strade con la polizia e noi che correvamo in una Milano dal Duomo ancora grigio e poi ridevamo liberi. E vivevamo lo stesso. Le vetrine oscurate e gli abiti irriverenti. E votavamo ai referendum senza più sentirci in colpa. E la leggerezza era dentro. E così l’amore. E il lavoro che non fu facile.

E poi gli anni ‘80 che ci fecero spendere con leggerezza, e cantare, gli acquisti importanti, le case, l’essere madre, l’essere già ammalata in una Ginevra splendente di luglio per cercare un benessere che non poté arrivare mai. Quel che mi fu rubato per sempre. Quel che non ho dimenticato. Più. Più.

Marina di Ragusa anni ’80 (Archivio Pietro Murè)