I monti di fronte casa mia hanno tratti di rimboschimento, la città si espande troppo – il suo profilo è cambiato – alberi cresciuti coprono la vista dei palazzi, si piegano sulla strada, alcune ville distruggono il paesaggio, le vie hanno negozi nuovi e orientali o vani abbandonati, le auto nomi differenti, i palazzi colori sgargianti, la stazione è vuota, il treno passa solo due volte sui binari che vedo dal mio balcone, la vallata è inondata dal verde incolto, i campanili non si stagliano più nel cielo e il suono delle loro campane non si sente.
Ragusa. Stazione di Genisi. (Archivio Piero Murè)
Io non viaggio da trenta anni, da allora non vado in un albergo: il piacere di scorgere una stanza dal letto immacolato, il panorama insperato oltre le vetrate, la colazione col suo profumo, il risveglio fra lenzuola fresche. E il mattino da iniziare in luogo diverso. Tutto è successo, e gli anni sono trascorsi veloci e pure lenti, e io devo aver perso tanto. Tanto. Mentre mi aggiravo in queste stanze credendo di vivere. Inconsapevole, forse. Forse.
Tutte le epoche hanno avuto un loro modo, un senso preciso. Una atmosfera. Una storia, certo. Mia nonna raccontava del terremoto di Messina vissuto da lei con terrore ma anche con tenerezza di bimba. E poi gli anni trenta, eleganti e folli, e riempiva i miei pomeriggi con le sue nostalgie e le foto originali. Poi mia madre che parlava della sua gioventù con entusiasmo e felicità anche se fu in tempo di guerra! Le erano rimaste solo le immagini belle di quel periodo, e metteva entusiasmo e ricchezza di particolari ogni qual volta, e cioè spesso, diceva nei nostri lunghi viaggi in treno e sempre nei suoi giorni malati e non.
Anni ’30 (foto stilemillelire.com)
E adesso faccio anche io, ascoltando le canzoni degli anni ‘50 e ‘60 e tutta la loro bellezza ritorna in me, gli odori e i pensieri e le piccole sofferenze e l’Italia attraversata in Giulietta mentre tutto rinasceva e ce ne accorgevamo, gli alberghi, le chiese con i crocifissi lignei nelle città antiche risorte, e anche i piaceri, le estati libere e gli inverni scuri. E Londra da sognare con i “movimenti” giovanili e lo scombussolamento della società che avveniva piano piano.
E poi gli anni ‘70, nel pieno della gioventù, quasi dimenticando il “piombo” di quel decennio, ma rivivendo le canzoni e le notti, i baci, gli abiti e i primi trucchi degli occhi, e gli sguardi allo specchio e i viaggi per l’Italia in ferrovia e gli ospedali e i medici belli e vicini e pure distanti, le piazze e le stazioni, le bombe e le strade con la polizia e noi che correvamo in una Milano dal Duomo ancora grigio e poi ridevamo liberi. E vivevamo lo stesso. Le vetrine oscurate e gli abiti irriverenti. E votavamo ai referendum senza più sentirci in colpa. E la leggerezza era dentro. E così l’amore. E il lavoro che non fu facile.
E poi gli anni ‘80 che ci fecero spendere con leggerezza, e cantare, gli acquisti importanti, le case, l’essere madre, l’essere già ammalata in una Ginevra splendente di luglio per cercare un benessere che non poté arrivare mai. Quel che mi fu rubato per sempre. Quel che non ho dimenticato. Più. Più.
La vecchia strada che da Ragusa porta a Modica inizia proprio dal mio portone di casa. Costeggia il nostro fiume e la sua valle, ci sono molti mandorli selvatici, e pietre grigie. Ci si fermava al passaggio a livello che un tempo era spesso chiuso. Passava un treno solitario e noi stavamo ad attenderlo sotto il sole, col pizzichio al naso in primavera. Si entra in centro subito, la lunga via scavata, i palazzi antichi, gli slarghi, le chiese con le facciate diritte e barocche, purissime nel cielo azzurro. Mio padre ci portava per assaggiare i biscotti croccanti dal cuore tenero, mangiavamo in osterie pulite e odorose. Era sabato e si attendeva la domenica in vestiti leggeri, fiorati. Facevamo fotografie, camminavamo sul Corso con la cioccolata in mano che si scioglieva, l’aria pesante e il senso dell’abbandono che si insinuava lento. Ci andammo sempre, in altri tempi più vicini, ora vorrei rivedere le piante di agavi e i papaveri bassi lungo il ciglio della strada, le luci nella sera accese, la gente che sosta ai portoni bui. Ora è solo ora.
Oggi è piovuto all’alba. Il cielo e il mare bianchi e la pioggia pure. Tutto un vetro opaco. E adesso lucido e trasparente, con onde blu e verdi infuriate. Si può guardare fino in fondo, giù all’orizzonte netto dove ci sono nuvole sparse. Noi cuciniamo e vien voglia di fare la valigia e andare. Di mettermi scarpe chiuse, di girare una sciarpa intorno al collo, di chiudere le persiane e salutare questi alberi lavati, puliti. Loro mi aspetteranno per un altro anno ancora, è quel che spero. Adesso mangio, il profumo della cannella sulle pesche, l’anguria troppo fredda – ma rossa e timida – per questa giornata insolita. La tovaglia che svolazza, la vespa ostinata sul piatto colmo. Come tutto può cambiare in fretta… anche i colori. E i pensieri.
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