di Giuseppe Schembari
“Bisogna essere intelligenti per venire in Aspromonte…” Parafrasando Gesualdo Bufalino (su Ragusa Ibla) non può che iniziare così un breve diario di viaggio in una delle terre più aspre, sconosciute e misteriose della nostra penisola: l’area grecanica della punta più meridionale dello stivale. La Calabria aspromontana che guarda verso il mar Ionio.

Non si arriva lì per caso, in un luogo da “Cristo si è fermato ad Eboli”, tra strade impervie per nulla trafficate e nessuna segnaletica per orientarsi. Un gioco di sali-e-scendi vertiginosi che seguono la morfologia frastagliata dei profili delle montagne. Ai lati si alternano pericolosissimi burroni (interdetti a chi soffre di vertigini) a grandi pareti di roccia friabile che rilasciano pietrame sopra le già piccole e malconce sedi stradali. Fenomeno reso ancor più pericoloso dai vasti incendi degli ultimi anni. Qualsiasi errore di guida può essere pagato a caro prezzo.

Ma il premio per chi ha il gusto e il piacere di avventurarsi in quei posti è quello di varcare una porta spazio-temporale. Un wormhole che porta indietro nel tempo in una dimensione antica come le stesse montagne d’Aspromonte e dove piccole comunità di poche anime ancora resistono sospese in un limbo senzatempo, fatto di silenzio e di odori che appartengono soltanto alla natura. Qui il frastuono della cosiddetta civiltà non arriva nemmeno come leggero disturbo da mondi lontani. Sono gli eredi degli antichi pastori e contadini greci che lì si stabilirono nella notte dei tempi in più ondate migratorie.

Il grecanico è la lingua parlata soprattutto dai più anziani. Un patrimonio culturale unico che affonda le sue origini nel greco antico: oggi censito dall’Unesco come lingua “severamente in pericolo di scomparsa”. Si calcola che siano rimasti soltanto in 500 circa a parlarlo. Anche la religione è rimasta almeno in parte quella dei padri: il cristianesimo di rito greco-ortodosso. Ha resistito nei secoli ai tentativi di sovrapposizione della chiesa cattolica romana.

Le più caratteristiche sono micro comunità come Bova (400 abitanti circa), Roccaforte del Greco (400), Palizzi superiore (300), Staiti (200), Gallicianò (40) e Pentedattilo (30, 40?), Poi ci sono i borghi fantasma come le vecchie Amendolea, Africo e Casalinuovo (abbandonate dopo l’alluvione del 1951 e del 1953), e Roghudi (abbandonata dopo l’alluvione del 1971). Raggiungibili tutti con molte difficoltà grazie all’ausilio esclusivo dei navigatori satellitari.
Qui non si fatica ad immaginare le vite dei vecchi abitanti strappate all’improvviso alla loro quotidianità, alle loro povere cose. Una sensazione di vite sospese che si fa d’un tratto quasi opprimente nel silenzio che diventa spettrale, tra le rovine fuse con la vegetazione che ancora raccontano di fatiche e povertà d’altri tempi.

Africo, il paese più isolato d’Aspromonte, mancante di tutto, dalle strade all’energia elettrica (ed eravamo già agli albori degli anni ’50). Era stato definito dalla stampa del tempo “il paese più disgraziato e più infelice d’Italia” , “il paese della perduta gente”. Oggi rivive di altra vita grazie agli appassionati di trekking e di un turismo molto selettivo ancora in una fase di lancio.

Un turismo che rappresenta l’unica possibilità di sopravvivenza grazie soprattutto agli investimenti dell’Unione Europea e ad una parte di giovani (e anche diversamente giovani) che non vogliono arrendersi al “reddito di cittadinanza” o alla tragica rassegnazione che regna sovrana nella provincia più triste e forse peggio governata d’Italia: quella di Reggio Calabria. Il resto dipende dal passaparola o dall’informazione che può essere generata dalla stampa o dai blog come il nostro.
Gallicianò, Pentedattilo e Bova sono le comunità che si sono meglio attrezzate in tal senso e sono in grado di ospitare piccoli gruppi di turisti interessati alle antiche culture dei luoghi. Visitateli. Ne vale la pena e soprattutto contribuirete anche voi a dare una speranza alla volenterosa gente del luogo che sta cercando faticosamente di uscire da un secolare oblio.