In poche feste religiose si ritrova un così stretto rapporto identitario e di passione come in quella della patrona di Catania Sant’Agata.
Del carattere siciliano, i catanesi, esprimono, icasticamente, tante delle più colorite e profonde sfaccettature.
Leggerle commiste a devozione e orgoglio identitario nelle giornate di inizio febbraio, sui volti, gesti e movenze dei devoti e partecipanti, è possibile e agevole a tutti.
Imprimerle sulla pellicola esemplificandole e codificandole secondo la propria sensibilità estetica, è quello che prova a fare Giuseppe Cupperi, fotografo professionista ibleo.
Il fascino di questa festa e della figura della vergine Agata, d’altronde, da sempre ha oltrepassato i confini etnei e siciliani; anche di recente due artisti affermati, Milo Manara e Giorgio Distefano, si sono cimentati in una lettura moderna.
Milo Manara: manifesto per Etna comics 2023. (A destra) Giorgio Distefano: Agata, 2022. Tecnica mista su cartamodello intelato, foglia oro, argento e rame
Tutte le foto in bianco e nero, relative alla festa di S. Agata, sono opera del fotografo Giuseppe Cupperi.
Era una lagna continua, quella dei contadini e poveri vari:
«Ma che solo noi poveracci siamo destinati a soffrire, mentre quegli altri si strafogano come porci e sono sempre in festa? Manco fossimo stati noi, Signore, a conficcarvi i chiodi della croce!».
Non la finivano più. Sicché il Padreterno – siamo, come avete capito, ai tempi dei tempi – un po’ preso a pietà di costoro un po’ perché non ne poteva più, emanò un bando, che diceva: «Giorno tal dei tali, in tal luogo, accorrano tutti, perché ci sarà la ridistribuzione dei beni e dei mali!».
Ad arrivare per primi furono i cavalieri e potendo avere larga mano s’arraffarono – e che erano minchioni?! – il meglio del tutto: terreni, ricchezze, divertimenti, i posti di comando; ma come contrappasso, sulla salute dovettero metterci una croce lunga un palmo. Per questo sono spesso malaticci e di ‘malacculuri’.
Appresso vennero monaci e parrini, i quali dichiararono al Signore che sarebbero stati appagati dal solo Paradiso. Ma poi, facendo mente locale, si dissero: «Non è il caso di essere ingenui». E raccattarono quanto lasciato dai ricchi. Però anche loro dovettero cedere qualcosa. Per quanto riguarda la femmina, nisba! Dovettero togliersela di testa, anzi Domineddio impose loro che mettessero delle grandi gonne, perché fosse chiaro che le donne andavano considerate quali sorelle.
I villani arrivarono per ultimi e trovarono la ‘Gerusalemme distrutta’.
Si guardarono attoniti e sconsolati, iniziando un pianto accorato e lamenti continui: «E adesso come facciamo, Signore? Cavalieri e parrini non hanno lasciato neppure le briciole!».
E continuando: «Eravamo poveri e adesso siamo ancor più disgraziati e poveracci. Non resta niente per noi, tutt’attorno sembra spazzolato, neppure un filo. Anzi no, solo un asinello è rimasto, per colmo di dispetto!».
Paziente rispose Domineddio: «E voi perché non siete corsi subito al luogo della distribuzione, sapete bene che, chi non si dà verso, non ‘mangia’? Adesso dovrete contentarvi del solo asinello rimasto, quale ausilio e compagno al duro lavoro».
I poveri replicarono piangendo sommessamente: «Ma i nostri mali sono tanti, o Signore!».
«Sì, è vero, sono molti i vostri mali, tantissimi, come le pulci in agosto» continuò con paterna comprensione Domineddio, «ma di uno principalmente dovrete guardarvi, lo ‘sbirro’, che per voi è il pericolo più grande!».
L’apologo sullo stato dei ricchi e dei poveri è una libera versione del racconto morale, raccolto nella seconda metà del secolo XIX da Serafino Amabile Guastella dalla viva voce del contadino chiaramontano Vincenzo Gulino, inteso Sirènu e trascritto in nota alla sua opera Le parità e le storie morali dei nostri villani (Ragusa, 1884). Un tassello – come gli altri 28 riscontrabili sempre in nota al citato volume – di cultura contadina, intrisa in pari misura di saggezza filosofica e disincantato opportunismo, condito, il tutto, di sana ironia. Guastella, De Roberto, Capuana e Verga, specialmente, hanno dato veste letteraria a questo mondo degli ultimi.
Che poi oggi alcuni intellettuali di spicco sull’onda di opportunistici revisionismi o di folgorazioni critiche auspichino una serena rilettura di classici e autori del passato per dare loro collocazione adeguata (adeguata?) nella storia della letteratura, non è novità ma storia già vista e sentita.
Il mio corso monografico, nei lontani anni Settanta, fu su Verga. Lo tenne con passione ed empatia Carlo Muscetta, uno dei più grandi studiosi della letteratura italiana nel secolo scorso. A Rosso Malpelo dedicò un lungo ciclo di lezioni.
Ho amato smisuratamente Verga, il suo stile, la lingua, la psicologia dei personaggi. L’ho letto e riletto. Susanna Tamaro, scrittrice di grande valenza culturale, invece, lo ritiene sopravvalutato: l’ha detto, qualche giorno fa, al Salone del libro di Torino. Giovanni Verga e i suoi umili conterranei, ce ne faremo una ragione.
Ci fu una stagione in Sicilia – erano gli inizi degli anni Sessanta – quando alcune attrici giunsero per girare dei film, divenuti poi iconici come le dive che li interpretarono. Loro, poco più che ragazzine, si ritrovarono, tra un ciak e l’altro, a incontrare questo territorio mitico e misterioso ed i loro ‘strani’ abitatori. L’impatto fu, grosso modo, simile a quello di un paio di secoli prima, quando i viaggiatori stranieri scoprirono l’isola del sole e i siciliani: stupore, diffidenza, empatia…
Stefania Sandrelli a Ispica durante la lavorazione del film di Pietro Germi Divorzio all’italiana. A destra: manifesto del film (1963)
Le foto di allora, in bianco e nero smunto o kodacrome virato, hanno anima e corpo di quella stagione irripetibile. Stefania Sandrelli, vestita come una liceale di città, si aggira per le vie di Ispica tra gli sguardi divertiti, incuriositi e ammirati di alcuni giovani abitanti, in una pausa delle riprese di Divorzio all’italiana.
Manifesto del film Il Gattopardo diretto da Luchino Visconti (1963) – Al centro: Claudia Cardinale e Alain Delon durante una pausa delle riprese. – A destra e sotto: Claudia Cardinale a Partinico durante la lavorazione del film Il giorno della civetta. Foto di Giorgio Lotti per il settimanale Epoca del 12/11/1967
Claudia Cardinale, la candida e sensuale Angelica del Gattopardo di Luchino Visconti, ritorna ancora in Sicilia, qualche anno dopo, per girare “Il giorno della civetta” tratto da un famoso romanzo di Sciascia e diretto da Damiano Damiani. A Partinico, il fotografo del settimanale Epoca Giorgio Lotti, la riprende fra la gente del luogo, solare, intrigante e misteriosa.
Dopo aver trattato nelle scorse settimane due dei modelli simbolo di casa Lancia degli anni ’60: Fulvia e Flavia, non possiamo adesso non considerare quel terzo modello che rappresentò all’epoca il top della produzione del marchio torinese, ovvero l’Ammiraglia più elegante e lussuosa della produzione automobilistica italiana in quel momento storico: la Flaminia.
Il disegno elaborato da Pininfarina era ispirato allo stile della bella “concept” Florida, presentata al Salone di Parigi nel 1955, e che aveva raccolto i favori unanimi di critica e pubblico: dimensioni ampie, calandra davanti inglobata nella carrozzeria e due fari incorporati all’interno. Parafanghi originali, sottili, con dei piccoli fanali che venivano ad aggiungersi ai due maggiori. Dietro, la presenza di un paio di modeste pinne terminavano nella fanaleria di forma triangolare. Nella vista laterale, nonostante la mole, presentava una linea piacevole alleggerita da un rilievo che la percorreva per tutta la lunghezza. Ne costruirono quattro esemplari (3 berline uguali quattro porte e una due porte). Mentre della Florida II coupè, un solo esemplare: l’auto personale di Gian Battista Pinin Farina.
La “concept” Florida in versione berlina e coupé
Il compito della Flaminia non era facile. Sostituire l’Aurelia nel cuore dei lancisti era compito assai difficile, ma Pininfarina ci riuscì, anche nel non facile obiettivo di concepire una originale e moderna linea che segnasse una vera innovazione rispetto al passato, pur nella tradizionale eleganza e nello stile che aveva contraddistinto da sempre il marchio torinese. La berlina debuttò in anteprima al Salone di Torino del 1956 e nella versione definitiva al Salone di Ginevra del 1957. Le consegne dei primi esemplari iniziarono nel mese di giugno dello stesso anno.
La Lancia Flaminia berlina in versione bicolore
Gli interni comodi e spaziosi, anche per sei persone, avevano finiture di livello superiore. I sedili a panchina avevano entrambi il poggiabraccia centrale rientrabile nello schienale. La plancia, elegante nel disegno, era composta da due grandi strumenti di forma circolare: tachimetro e contagiri, che a loro volta inglobavano altre spie ed indicatori. Al centro del cruscotto si trovava il portacenere, mentre dal lato del passeggero trovava posto un vano portaoggetti con serratura. Tra gli accessori c’era pure l’accendisigari, due plafoniere per l’illuminazione interna, i deflettori posteriori azionabili dal guidatore e doppi tergilavacristalli (anche per il lunotto posteriore). Il volante era a due razze con il comando del clacson formato da un semicerchio.
Meccanicamente, invece, non fu una rivoluzione. Il motore, benché ridisegnato, conservava la stessa architettura di quello dell’Aurelia: un 6 cilindri a V, ma di dimensioni quasi quadre con una cilindrata di 2458 cm³, monocarburatore a doppio corpo, per una potenza di 102 CV a 4600 giri. Venne abbandonato, invece, il vecchio avantreno. Non più il classico assale brevettato Lancia, ma un semitelaio scatolato sul quale furono imbullonate le sospensioni a quadrilateri deformabili con molle elicoidali, ammortizzatori idraulici e barra stabilizzatrice. Invariato invece il retrotreno con assale rigido tipo De Dion con barra antirollio, gruppo frizione e cambio in blocco con il differenziale e freni (posteriori) interni. 2.695 gli esemplari prodotti.
Un modello leggermente modificato (quasi una II serie) venne presentato al Salone di Torino del 1961 con la carrozzeria quasi invariata (gruppi ottici posteriori modificati per aggiungere le luci di retromarcia) e qualche modifica nella plancia. Modesti i miglioramenti della meccanica con il motore lievemente potenziato a 110 CV e qualche altra piccola modifica all’albero di trasmissione. Ne vennero costruiti 638 esemplari.
La terza serie debuttò al Salone di Francoforte del 1963 con un motore più potente di 2.775 cm³, senza modifiche negli interni e nella carrozzeria (a parte la scritta 2,8 accanto alla scritta Flaminia). 599 gli esemplari costruiti.
Il motore 6 Cilindri di 2775 cm3 (2,8) della Flaminia
La Lancia produsse per le versioni speciali della Flaminia due tipi di pianale (più quello destinato alla Presidenziale): uno più lungo che venne affidato a Pininfarina. L’altro, più corto, alle Carrozzerie Touring e Zagato. La versione coupè Pininfarina venne presentata al Salone di Torino del 1959 e riproponeva lo stesso tema stilistico della berlina. Dunque, piuttosto che privilegare la sportività, puntò sull’abitabilità e il confort, risultando poco slanciata nella forma. Il motore era stato leggermente potenziato fino a 119 CV. Prodotti 3.201 esemplari.
La Flaminia coupé Pininfarina
Nel 1962 furono apportate alla coupé alcune modifiche, soprattutto nel motore, che fu dotato di un carburatore a triplo corpo (3B) con una potenza aumentata a 128 CV (950 esemplari). Poi, seguendo l’evoluzione della berlina, nel 1963 venne adottato il motore 2,8 con carburatore triplo corpo e 140 CV. Di questo modello ne furono costruiti 1.085 esemplari.
La prestigiosa Carrozzeria milanese Touring approntò, invece, sul telaio più corto, la versione Gran Turismo (GT). Un riuscitissimo modello slanciato, sportivo ed elegante allo stesso tempo, caratterizzato soprattutto da una bassa linea di cintura. Fu prodotto sia in versione Coupé che in versione Convertibile. La Coupé GT venne presenta al Salone di Torino del 1958, la Convertibile GT, invece, al Salone di Ginevra del 1960. Costruite secondo la tipica struttura brevettata “Superleggera”, cioè un telaio in tubi di acciaio ricoperto da una pelle di alluminio ispirato alle costruzioni aeronautiche. Spiccavano nell’anteriore i doppi fari i quali si armonizzavano perfettamente con le pinne posteriori terminanti con gli originali gruppi ottici posteriori di forma trapezoidale. L’abitacolo, elegante e sportivo, era solo per due posti con sedili dalla forma detta “a trifoglio”. Il Coupè GT fu costruito dal 1959 al 1961 in 863 esemplari. La Convertibile in 421 esemplari da 1960 al 1961.
La Flaminia GT Touring
Nel 1962 fu presentata una nuova versione potenziata denominata “3C”, sigla che stava ad indicare l’adozione di 3 carburatori doppio corpo che portò la potenza a 140 CV e costruita in numero di 685 esemplari Coupé (1962-1963) e 246 esemplari della Convertibile (1961-1963) (ne ho posseduta una di queste), alla quale seguì nel 1963, come per gli altri modelli Flaminia, il modello con motore 2,8 a tre carburatori con 150 CV. 468 esemplari per la Coupé (1963-1965) e 180 esemplari Convertibile (1963-1964).
La Flaminia GT Touring Convertibile
Nello stesso anno fu presentata anche la versione GTL, con un passo leggermente allungato per consentire un’abitabilità posteriore da 2+2. Ma la linea ne ebbe un vistoso danno, risultando meno slanciata e più goffa. Fu prodotta in 672 esemplari con motore di 2.458 cm³ 3C e in 468 esemplari con motore 2.775 cm³ 3C.
La Flaminia GTL Touring
La versione speciale Sport, su telaio corto, carrozzata da Zagato completò la gamma delle Flaminia. Si trattò di una delle più riuscite e affascinanti creazioni mai eseguite dalla carrozzeria milanese nella sua storia. Presentata al Salone di Torino del 1958 (insieme alla versione GT Touring), era caratterizzata da una linea decisamente di stampo sportivo (che ricordava quella dell’Appia GT dello stesso costruttore) e aveva una forma tondeggiante caratterizzata dal tetto con due lievi gobbe, tipiche delle creazioni Zagato, con telaio d’acciaio ricoperto da pelle di alluminio. In verità meno efficiente e dimensionato rispetto al “Superleggera” della Touring.
La Flaminia Sport Zagato con i fari carenati
La clientela più sportiva poteva ordinarla ulteriormente alleggerita ed equipaggiata con sedili tipo corsa e con i vetri laterali e posteriori sostituiti dal plexiglass. Al Salone di Torino del 1959 venne presentata anche nella variante senza fari carenati, mentre per il resto seguì l’evoluzione motoristica del modello Touring. Le finiture degli interni risultavano meno curate rispetto alle versioni Pininfarina e Touring.
Nel 1964, al Salone di Torino fu presentato il modello Super Sport che stilisticamente presentava delle modifiche estetiche vistose rispetto alla Sport. La più evidente nella parte posteriore: non più spiovente, ma tronca. Leggermente modificato anche il frontale con una profilatura più aerodinamica che si raccordava perfettamente con l’alloggiamento a goccia dei fari, ricoperto da una plastica trasparente appositamente modellata. Ne furono prodotte 187, tutte in versione 2,8 3C con motore potenziato a 152 CV, ma a differenza della “Sport” non furono prodotte tutte in alluminio. Nonostante la letteratura ufficiale non ne faccia menzione, un buon numero di Super Sport furono costruite in acciaio con sportelli e cofani d’alluminio (personalmente ne ho posseduta una di queste). Un’omissione incomprensibile sia da parte di Zagato che della stessa Lancia.
Il sol dell’avvenire, uscito da poco nelle sale, ha attirato l’attenzione di molti. Critiche entusiaste o sferzanti, sentimenti contrastanti, gioia, ilarità, noia, scherno. Ancora una volta Nanni Moretti divide il pubblico, sa farsi amare e odiare. In fondo, questa è stata da sempre la sua forza e un suo tratto distintivo.
Le locandine italiana e francese de Il sol dell’avvenire
La stampa di sinistra ha accolto con entusiasmo quest’ultima opera; quella di destra, invece, l’ha stroncata (com’era prevedibile), ma entrambe concordano su una cosa: Il sol dell’avvenire è il ritorno di Moretti al cinema morettiano, a quello che si suppone sappia fare meglio.
Così facendo, però, si stronca implicitamente il film precedente del regista romano, l’adattamento del romanzo di Eshkol Nevo, Tre piani, che meriterebbe di essere rivalutato.
Non bisognerebbe pretendere da un’artista di essere fedele al suo stile in ogni frangente, si può rischiare di trasformare quello stile in un cappio… Forse anche col sentore di questo pericolo, Moretti ha voluto fare un passo verso il suo pubblico, producendo un film più digeribile per gli appassionati.
Tre Piani (2021)
Così si susseguono dei veri e propri camei del passato: l’attenzione per le scarpe di Bianca, la coperta di Sogni d’oro, il giro di Roma di Caro diario. Ma superate queste “carezze” ai fedelissimi, Il sol dell’avvenire ha tematiche nuove.
Abbandonato l’alter ego Michele Apicella, Moretti interpreta Giovanni, un regista che vuole girare un film ambientato in un quartiere romano nel 1956, durante la rivoluzione ungherese. Giovanni è maniacale ed egocentrico, tanto da non accorgersi che la moglie (Margherita Buy), sua produttrice, vuole chiedere il divorzio. Il film subisce ritardi e defezioni, e Giovanni sogna di poterne produrre un altro, costellato di scene del passato e di canzoni italiane.
Giovanni durante una delle sue “riprese mentali” del film d’amore con tante canzoni italiane
Questo meta-cinema, che mescola i piani narrativi, prende tanto dalla “bella confusione” di 8 ½ di Federico Fellini: un regista al quale sfugge tutto di mano, costretto a combattere con gli attori e ad affrontare una crisi coniugale.
Ma oltre a questo, si manifesta un profondo amore per il cinema, per ciò che Moretti ritiene bello e che è in grado di contrastare la violenza, quella palese e sanguinaria, e quella verbale. E qui si può ricordare l’iconico «Le parole sono importanti, chi pensa male parla male» di Palombella rossa o un’intervista nella quale definì Emilio Fede un violento.
Nel cast de Il sol dell’avvenire spiccano: Silvio Orlando, Barbora Bobuľová e Zsolt Anger
«Una volta vedevo quello che già sapevo che non mi sarebbe piaciuto» ha sostenuto il regista ospite da Marco Damilano. Oggi con questo film è molto diverso.
Fatti i conti col passato, il cinema merita bellezza e utopia, impossibile ma pur sempre necessaria, con quello che il PCI, altro grande protagonista del film, sarebbe potuto essere e non è stato.
Con Il sol dell’avvenire si è chiuso un cerchio. Questo non è solo un omaggio che Nanni Moretti rivolge al suo cinema, ma un’apertura a ciò che potrà essere in futuro. E allora anche i se potranno fare la Storia…
Lasciamo da parte ciò che Moretti “sa fare meglio”, lasciamolo esprimere senza pregiudizi, com’è giusto che sia.
ovvero
Come districarsi tra canoni tradizionali e stereotipi
di Giulia Cultrera
Raccontare una storia non è certo facile, anche se i meccanismi e gli elementi principali che regolano qualsiasi struttura narrativa seguono per lo più lo stesso schema.
Il modello più diffuso per la costruzione di una trama è quello teorizzato da Aristotele, che divide la narrazione in 3 atti:
Introduzione dei personaggi, del mondo ordinario, del conflitto principale che rompe l’equilibrio e porta alla chiamata dell’eroe;
Sviluppo del conflitto: il protagonista deve affrontare una serie di sfide, fino ad arrivare al punto di maggior intensità drammatica (climax);
Risoluzione del conflitto: il protagonista è cambiato e fa ritorno al mondo ordinario.
A questo schema di base si applicano altre tecniche e analisi che contribuiscono a costruire l’universo narrativo e ad arricchire il viaggio dell’eroe.
Il tutto, ovviamente, deve rispondere anche alle specifiche regole dei vari generi narrativi: la trama è strutturata in modo da aderire ai canoni letterali e rispettare temi, contenuti, stili che richiamano topoi e cliché del filone in questione.
Non si tratta di regole universali, tuttavia, alcuni elementi come il passaggio dal mondo ordinario a quello straordinario, l’evoluzione o involuzione del personaggio, il climax finale che porta allo scioglimento della trama, sono presenti in quasi tutte le narrazioni. E vengono declinati in modo diverso in base al format attraverso cui si sceglie di rappresentarli.
Nel caso delle serie tv abbiamo una trama principale che si articola lungo l’intera stagione, e tante micro-trame secondarie che compongono i singoli episodi. Anche qui ritroviamo il modello in 3 atti, perché ciascuna puntata segue sempre lo schema introduzione-sviluppo-risoluzione, spesso arricchito da un colpo di scena finale (cliffhanger) che rimanda all’episodio successivo. Nulla può essere lasciato al caso o si rischia di perdere l’interesse dello spettatore.
Incorrere nella monotonia e nella ripetitività decreta la fine di una serie tv. Dunque, come fare per rendere più originale e coinvolgente la narrazione?
Un espediente sicuramente ingegnoso, ormai abbastanza diffuso, è quello di giocare – apertamente e in modo intelligente – con i generi narrativi. Spiegare le regole e le tecniche principali, ironizzare sui cliché e sugli stereotipi, svelare i meccanismi che caratterizzano ciascun filone narrativo è un modo vincente per attirare e mantenere alto l’interesse dello spettatore.
Ovviamente, è fondamentale conoscere i canoni tradizionali del genere, in modo da svelarne la finzione scenica senza scadere in una narrazione artefatta e stereotipata.
Jane the virgin è uno degli esempi più calzanti: un mix vincente di nonsense, suspense, avvenimenti assolutamente inverosimili e colpi di scena teatrali. Gli sceneggiatori applicano tutti – ma proprio tutti – i temi tradizionali delle telenovelas, giocando con gli stereotipi per dar vita a una narrazione corale che conquista fin dai primi episodi.
Incastrati e Only Murders in the building mettono in scena una parodia del genere giallo, evidenziando gli aspetti caricaturali dei personaggi e la prevedibilità di alcune dinamiche, ormai eccessivamente utilizzate nel mondo poliziesco.
La quarta stagione di You utilizza un approccio ancora più diretto: il protagonista fa un’analisi delle regole della narrativa gialla e le mette in pratica. In questo modo lo spettatore ha ancora di più l’illusione di scoprire il crimine insieme al personaggio.
Ma il progetto di gran lunga più ambizioso è stato sviluppato da Community. La serie attinge a più tecniche narrative, di ripresa e montaggio, generando una commistione di generi senza precedenti.
In tutti questi casi, la parola chiave è sperimentazione. D’altra parte, una narrazione in più capitoli funziona se riesce a sorprendere e coinvolgere lo spettatore anche a distanza di tempo, cercando di rimanere fedele allo schema originale, ma anche reinventandosi.
Nelle serie un killer prima di ammazzare uno si interroga se ci saranno delle conseguenze, tranne che nelle serie italiane. Se fosse per voi veramente le stagioni durerebbero una puntata. Netflix potrebbe chiudere.
– Incastrati
Se sapessi qualcosa di telenovelas, sapresti che tutto dovrebbe essere drammatico!
– Jane the virgin
Non cercatelo questo tesoro, perché non esiste più. O meglio, ha avuto ottima destinazione. È servito per costruire l’ospedale Busacca di Scicli.
Gli storici vi diranno che le cose stanno diversamente in quanto il Busacca del tesoro è un ricco gentiluomo del XVI secolo, Pietro di Lorenzo, che nel luglio 1557 in punto di morte, a Palermo, facendo testamento donò il suo ingente patrimonio alla città natale, Scicli. Un ricco mercante, ebreo come fa dedurre il suo soprannome Busacca, che con questo dono rese moderna la sua città: nei successivi quattrocento anni “l’oro di Busacca” non solo fornirà la dote a molte ragazze e ne monacherà parecchie altre, ma sarà prezioso nella ricostruzione post terremoto e nella realizzazione di opere pubbliche, specie nel periodo post-unitario; la più esemplare delle quali sarà l’Ospedale, attivo fino a oggi.
Presunto ritratto di Busacca. Particolare da un dipinto anonimo del ‘600; Palermo, Chiesa di S. Anna la Misericordia. Foto Luigi Nifosì. (A destra) Scicli statua commemorativa di Pietro di Lorenzo detto Busacca
Ma io voglio raccontarvi quest’altra, per come la contano gli anziani, che la Storia non conoscono, o la conoscono a modo loro; tutta intrisa di altre “storie” che non hanno conforto di documenti o reperti, ma si sono generate e rigenerate passando di bocca in bocca, nel tempo andato.
C’erano due compari, amici per la pelle. Uno dei due un giorno fa all’altro:
«Compare, la prendiamo una truvatura?»
«Pronto, compare. Tempo avete perso. Dov’è?»
E questi gli confidò che, nel terreno dove lavorava, gli appariva sempre nello stesso posto, un rospo; che, come iniziava a guardarlo fissamente, all’improvviso spariva. Così per parecchie volte.
Appena si fece sera presero zappa e pala, due lumi di carretto, e si avviarono. Giunti sul luogo – c’era la luna piena – quello indicò il posto dove appariva il rospo: ma ora era occupato da un animale orrendo. Il compare senza pensarci due volte afferrò la zappa e l’uccise.
Iniziarono subito a scavare nel luogo fatato e procedendo, procedendo si imbatterono in tante giare piene di marenghi d’oro. Per la contentezza si misero a ballare senza musica, che parevano due matti.
Il ritrovamento di un tesoro, stampa
«Compare, ricchi siamo!»
«Sì, ma come facciamo per portarli a casa? Sono tanti e pesanti».
«Ci serve una bestia da soma».
«Ben detto compare. Sapete che facciamo? Voi andate in paese e ve la fate prestare da qualche conoscente, mentre io resto a guardia dei marenghi».
Ma l’altro compare non voleva andarci. Mica era scemo: “questo vuol farmi fesso, mentre io vado in cerca della soma lui si frega il tesoro; eh no!”
«Andiamoci insieme a cercare le bestie; che solo qui non vi voglio lasciare, non sappiamo cosa vi può succedere! Ecco, nascondiamo coprendola con la terra la truvatura e ci andiamo insieme a cercare un paio di robusti muli».
«Ma no, andate sicuro compare e non preoccupatevi per me, che io so quartiarmi che non sono nato ieri…»
E tira e molla, non si risolvevano chi dovesse andare in paese e chi restare, sospettando ognuno dell’altro: che i soldi fanno venire la vista agli orbi ma accecano il cuore e inaridiscono l’animo. Dopo lunga discussione, infine uno dei due cedette: «E va be’, ci vado io».
Veduta di Scicli. Disegno a inchiostro su carta, secolo XVIII. Biblioteca Ursino Recupero di Catania. Foto Luigi Nifosì
In paese procurò due viestie e come si fece mattino ritornò in campagna.
«Ecco le bestie compare. Ma prima di cominciare a caricare, mangiamolo un boccone, che la comare, vostra moglie, me lo diede con tanto amore compreso il vino!» E così dicendo estrasse dalle bisacce una truscitedda e un fiasco di vino.
Ma il compare che era restato accanto al tesoro, alla vista del fiasco si mangiò la foglia: «Caro il mio compare, trafico c’è, quel tipo di fiasco non è roba di casa mia: questa non me la bevo» sogghigno tra sé e poi aprendo il viso a sorriso: «Va bene compare, ma prima carichiamo il malloppo. Mangeremo, subito dopo, con comodo!»
L’altro annuì.
Riempirono le bisacce delle bestie; e ci volle un bel po’ perché davvero erano tanti quei marenghi d’oro. Poi si posero a sedere uno di fronte all’altro per mangiare.
«Favorite, compare», fece quello che era rimasto a guardia del tesoro, tirando fuori cibo e vino.
«Grazie compare, ma io il mangiare me lo sono portato» e trasse fuori un altro fagotto col cibo e il vino, identico a quello che aveva dato al compare.
Scicli, Santa Maria La Nova. Foto Giulio Lettica
Qui l’altro ebbe conferma dei suoi sospetti: «Ah. Tu vuoi farmi la pelle, dal momento che avrai di certo avvelenato il mio vino. Aspetta che ti sistemo!». E di colpo mentre mangiavano gettò lo sguardo sulle bestie: «Ma come l’avete legate le bisacce al basto? Guardate stanno cedendo!»
Quello si voltava guardingo – un occhio a Cristo e uno alla Madonna – replicando: «Ma che dite, se ho ben serrato le corde».
«Vi dico che son legate male e il basto sta cedendo» – continuò con voce sicura l’altro compare – «legatele bene prima che caschi tutto!»
Il compare a questo punto ci credette e andò verso uno dei muli per stringere le corde; lesto l’altro, in una fatta di croce, scambiò i fiaschi.
«Ma che date i numeri compare, che qui le corde sono tutte ben legate» fece piccato quello costretto ad alzarsi.
«Scusate compare, mi sa che mi hanno ingannato gli occhi. Avete ragione voi», replicò con finta affezione il primo compare.
E tornarono a magiare.
Quello che aveva scambiato i fiaschi offrì il proprio vino all’altro: «Favorite, cumpà!»
«Grazie, compare, ho il mio. Anzi, volete favorire voi?»
Favorite voi, favorisco io: ognuno bevve quello del proprio fiasco, convinto di aver gabbato l’altro.
Difatti, quello che aveva portato il cibo di colpo s’irrigidì: morto di cent’anni.
«E bravo il compare, avevi avvelenato il vino, ben ti sta!»
Ma manco finì di dirlo che pure lui fu morto stecchito. Il compare per maggiore sicurezza oltre al vino aveva avvelenato pure il cibo dell’amico.
Le bestie stettero ferme lì un bel pezzo, ma quando cominciarono a sentire i morsi della fame, si misero in cammino verso la stalla e la casa del padrone. Questi quando le vide presentarsi, con quel carico di marenghi d’oro, dapprima si meravigliò e spaventò poi con circospezione li fece sparire nascondendoli in casa. «Ora vediamo chi viene a reclamarli?!»
Ma chi doveva cercarli se quelli che li avevano scavati erano morti, poveri fessi.
Ed era tanto grande il tesoro, che questo fortunato e casuale proprietario destinò gran parte dei marenghi per un’opera di bene: fece costruire un grande ospedale e lo chiamò Busacca, che era il suo cognome.
Scicli, colle San Matteo. Foto Giulio Lettica
Riferimenti bibliografici:
Giovanni Selvaggio, Cunti e leggende di casa nostra. Ragusa, Il Gattopardo, 1991.
Giuseppe Barone, L’oro di Busacca. Potere ricchezza e povertà a Scicli (sec. XVI-XX). Palermo, Sellerio, 1998.
Pietro Militello, L’eredità di Pietro di Lorenzo detto Busacca, Ragusa news, 2014.
Salvo Miccichè, Scicli onomastica e toponomastica, Scicli, Il giornale di Scicli, 2017.
Nella triste storia della Preside palermitana “antimafia”, Daniela Lo Verde, c’è qualcosa che va molto oltre ai fatti illeciti contestati e raccontati dagli stessi filmati dei Carabinieri. Qui non siamo soltanto di fronte ad una squallida e volgare ladruncola (con i suoi squallidi e volgari complici) che senza vergogna, e dietro il vessillo dell’antimafia, rubava di tutto dalla scuola che dirigeva, persino dalla mensa dei bambini. Siamo al tentativo di uccidere la speranza degli onesti, in una regione dove niente sembra come appare e dove dio e il diavolo convivono da buoni vicini di casa.
2020. La Preside Daniela Lo Verde riceve l’onorificenza di “Cavaliere della Repubblica” dalle mani del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (foto tg24.sky.it)
È la stessa Sicilia della “mafia dell’antimafia” che richiama alla mente il cosiddetto “Sistema Montante” e delle cosiddette Associazioni antiracket, dove le “svolte legalitarie” erano servite solo da paravento dietro cui occultare meglio attività criminose e rapporti mafiosi. La Sicilia della (ex) Giudice Silvana Saguto che presiedeva la “Sezione misure di prevenzione” del Tribunale di Palermo (8 anni e sei mesi di carcere) che, secondo i giudici, dietro al solito vessillo dell’antimafia, trafficava in nomine e si era guadagnata l’appellativo di “regina” dei beni confiscati alla mafia. La Sicilia della “borghesia mafiosa”, ovvero di quella zona grigia formata “da membri delle istituzioni, da attori politici ed economici che hanno un ruolo preminente nei diversi territori e che costituiscono un sistema di potere (mafioso)…”
L’Istituto scolastico “Giovanni Falcone”, nel quartiere Zen di Palermo, e la sua (ex) Preside Lo Verde (foto tecnicadellascuola.it)
Va da sé che la Preside Lo Verde, in questa terra, non è una disgraziata eccezione, ma solo l’ultima furfante, di una lunga serie, ad alzare il vessillo della legalità per nascondere meglio i propri intenti criminosi. Comportamenti criminali miseri, da rubagalline, in questo caso, per sottrarre quanto possibile da una scuola di frontiera. Per questo la Lo Verde meriterebbe dalla Giustizia una pena esemplare. Rubare la speranza, far si che ci si convinca che nessun riscatto sia possibile in questa disgraziata terra, è un danno morale che va molto al di là dei semplici fatti contestati.
Questa mattina presto appena alzato metto il naso fuori per vedere che tempo c’è. Nuvole e aria di pioggia, eppure nel giardino davanti casa tra erba verdissima sono nati dei papaveri. L’intensità di quel rosso nel grigio spicca ancora di più.
In queste settimane sui giornali, come era prevedibile, piovono le polemiche sul 25 aprile. Se i rappresentanti dello stato parteciperanno oppure no alle tante celebrazioni, e poi a seguire le tante affermazioni polemiche.
Tre amiche e la passione comune per la moda: The bold type potrebbe essere la degna erede di Sex and the city, in chiave più moderna e impegnata. Anche in questo caso il titolo definisce un quadro generale della serie tv, in una duplice accezione: con l’aggettivo bold si indica una persona coraggiosa e fiduciosa, pronta a correre rischi; ma il bold è anche il termine con cui si indica, in ambito editoriale, lo stile grassetto, utilizzato per dare enfasi al testo.
Abbiamo già una visione d’insieme del carattere indipendente e combattivo delle protagoniste, e del loro luogo di lavoro. Lo show, infatti, segue le vicende sentimentali e professionali di Kate, Kat e Sutton, dipendenti della rivista femminile Scarlet.
Ritroviamo il tema centrale della moda, perché Scarlet tratta prevalentemente di moda, ma anche di femminilità e sessualità. Sex and the city è stata una serie tv rivoluzionaria alla fine degli anni ‘90, perché ha introdotto un format nuovo e fatto cadere il velo del pudore e dei tabù. The bold type parte con le stesse premesse, ma punta più sull’informazione e la sensibilizzazione. Inserisce nella narrazione tematiche sociali, culturali e religiose attuali e nuove, spesso non affrontate per mancanza di consapevolezza o coraggio. Sdogana questi argomenti delicati e li analizza con semplicità e delicatezza.
Arriviamo così al cuore dello show: tre amiche dai caratteri molto diversi, un luogo di lavoro che permette loro di essere se stesse, esprimere la propria personalità e far sentire la propria voce.
Una serie al femminile che esalta il girl power ma costruisce anche personaggi maschili forti e in linea con una visione egualitaria e femminista della società.
Un inno alla genuinità e all’autostima. In un contesto sociale sempre più pervaso da canoni sbagliati e irraggiungibili proposti dai social, l’unico modo per sopravvivere è essere se stessi e accettarsi in qualsiasi forma, nonostante il giudizio tossico e distorto che arriverà – sempre e comunque – dall’esterno. Ecco che The bold type pone l’accento sull’importanza di trovare un ambiente di lavoro non tossico, salvaguardare il proprio benessere psicofisico e coltivare i propri talenti.
Nell’arco di cinque stagioni vediamo le protagoniste crescere, fallire e ottenere successi. Una quotidianità condita di insicurezze e paure, rivincite e gioie condivise. Il tutto adornato da una manciata di paillettes e rivendicazioni sociali.
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