Stanco di zappare da mane a sera, un contadino, mise da parte il maràgghiu (zappa larga) e andò a farsi monaco.
Il priore del convento, il giorno successivo, lo mandò a chiamare:
«Che facevi al tuo paese?» «Zappavo. E mi son fatto monaco perché il lavoro non mi piace» rispose lesto quello. «Allora ti dico cosa hai da fare: vai in sacrestia e prendi il matacubbu che poi ti dico il tuo servizio».
Il monaco novello andò in sacrestia e vi trovò soltanto – in bella vista – una zappa. La prese in mano, e riguardandola, con disappunto:
«Lu nomu ti canciasti: di maràgghiu, matacubbu ti mittisti! » «Hai cambiato il nome di zappa, con quello di marra!»
Lo raccontavano i vecchi di una volta al giovane lavoratore che si mostrava poco incline al duro lavoro che quotidianamente lo aspettava, cercandone un altro meno pesante e impegnativo. Spiegando, con sottile ironia, che per i poveri diavoli il lavoro facile o leggero, non era stato ancora inventato!
«Longa vita o nuostru rrè!» era l’intercalare abituale d’una anziana popolana che sulla soglia dell’angusta abitazione filava una ruvida ‘frazzata’. Ormai le vicine o gli occasionali passanti avevano smesso di canzonarla o chiedere il motivo di tanta affezione al sovrano; al quale dei problemi dei sudditi – e a maggior ragione di quella povera derelitta – gliene fregava un tubo. Anzi acuiva la loro grama e difficile esistenza con tasse esose e vita dissoluta e malvagia.
J. Georg, Vecchia che fila, incisione del XVIII secolo, M. Mitelli, In casa sua ciascuno è re, acquaforte, 1687
Qualcuno fece arrivare la notizia a corte: «In un piccolo paesino del vostro regno c’è una vecchina che mentre tesse esclama spesso “Lunga vita al re!”Evidentemente è molto devota a vostra maestà; è un piacere sentirglielo dire, a ogni piè sospinto». Il giovane sovrano incuriosito, ma ancor più sorpreso, decise di constatare di persona.
Detto fatto: si travestì in modo che nessuno potesse riconoscerlo e si recò nel luogo indicato. Passò e spassò dal vicolo dove la vecchina sull’uscio di casa filava e la udì più volte esclamare: «Longa vita o nuostru rrè!».
L’ennesima volta che ripassò davanti alla casupola si accostò e le rivolse la parola: «Sono passato più volte da qui e vi ho sentito augurare lunga vita al vostro sovrano, che certamente mai avete incontrato e che niente ha fatto di speciale per voi, non conoscendovi affatto. Perché allora?».
«Mio caro giovane signore – rispose quella – io sono molto vecchia, e ho conosciuto il nonno dell’attuale re: era cattivo e pene ce ne fece soffrire più del maligno. Tutti pregavamo perché morisse al più presto. E difatti la sua morte fu una festa per tutti. Ma voi pensate che fosse finita? Il figlio, vale a dire il padre dell’attuale re, fu ancora peggiore: miserabile e cattivo che non vi dico.
Schiattò pure lui; ma suo figlio, che è il re che attualmente ci governa, è risultato molto più cattivo e più vile! E se morisse, il figlio sarebbe anche peggio! Meglio allora contentarsi di quello che abbiamo». Fece un breve sospiro e continuando a filare: «Al peggio non c’è fondo, caro signor mio! ».
A. Amorosi, Vecchia che fila, olio, secolo XVII (particolare)
L’ho avuta raccontata dalla mia nonna materna e l’ho pure trascritta, assieme a un’altra decina di storie, quale ricerca per un esame di Tradizioni popolari col prof. Sebastiano Lo Nigro. Mi affascinarono, allora, le molteplici chiavi di lettura e sfaccettature. Tipiche dei materiali di cultura popolare. Nei quali oltre alla valenza narrativa, storica e sociale, appare prepotente la perenne attualità dei cicli storici.
Potrete leggerla, in versione e lingua ragusana, anche nel pregevole volumetto di Giovanni Selvaggio, Parabbula significa, (Ragusa, 1987).
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