di Giovanna Giallongo
Era il 1859 quando il trentenne Lev Tolstoj scriveva “La felicità domestica” pubblicandolo nella rivista politica e letteraria russa Russkij Vestnik. Si tratta di un romanzo giovanile piuttosto curioso e interessante se si pensa che la penna di cui parliamo è quella che diede vita ad opere come “Anna Karenina” e “Guerra e Pace”.

Perché curioso? Perché interessante? Dopotutto, è sempre Tolstoj! Cosa può esserci di così diverso?
Queste saranno le domande che costituiranno le fondamenta della recensione di un romanzo atipico poiché tale, molto spesso, viene considerato. Lo stile de “La felicità domestica”, così come delle opere future ben più acclamate, si riassume attraverso due caratteristiche: il linguaggio e la descrizione della società, condotti in maniera realistica, e l’approfondimento psicologico dei personaggi volto alla trasmissione dei valori morali.
In questa opera giovanile, Tolstoj si cala letteralmente nei panni di una diciassettenne rimasta orfana, Mascia, la quale vive in campagna insieme alla sorellina Sonia e alla governante Katia. Il cupo e lungo inverno russo è il teatro emotivo di Mascia la quale vede la sua giovinezza, e la gaiezza che una simile età comporta, vagare silenziosamente su un palco vuoto e senza spettatori che la udiscano o la osservino.

Tuttavia, i riflettori si accendono di colpo quando Serghièi Mikhàilovic -vecchio amico di famiglia- si reca loro in visita. Chi lo accoglie non è più la graziosa bambina che aveva lasciato anni addietro ma una giovane e avvenente donna che lo farà ricredere, inizialmente, sul concetto di amore e accettazione di tale sentimento.
In poco più di centotrenta pagine, Tolstoj svela al lettore i pensieri più reconditi di una giovane donna del XIX secolo scandagliando quei misteriosi fondali femminili tanto complessi – e all’epoca così poco interessanti agli uomini – quanto frivoli, a volte, della nascita di un sentimento chiamato amore e di come esso possa essere vissuto.
L’aspetto curioso dell’intero romanzo -rispondendo, dunque, alla prima domanda- riguarda il modo in cui Tolstoj narra la vicenda inserendo lunghi salti temporali che non accelerano gli eventi bensì li rallenta. La sensazione di quel “fermo emotivo” che colpisce Mascia e, di conseguenza, anche Serghièi viene esasperato dal tempo che scorre e di cui noi lettori non leggiamo niente. Il suo incedere è lento, copre lunghi archi temporali e arriva diritto alla fine lasciando il lettore quasi a bocca asciutta in attesa di quel qualcosa in più che non è dato avere.

La via per trovare la risposta alla seconda domanda si scopre attraverso la crescita di un sentimento mai provato prima. L’aspettativa di condividere quel palco con qualcuno che canti la sua stessa aria, inebria la vita di Mascia e rende nuovamente vivo quel teatro che è, in fondo, la sua casa paterna che adesso vede la primavera.
Insieme a “La felicità domestica“, entriamo nel profondo di una logica contorta e contraddittoria. Diventiamo e viviamo i tormenti e le insicurezze di una diciassettenne che mostra il volto alla vita e che porta con sé un bagaglio di esperienze ancora vuoto e, per questo, leggero e felice. Dimentichiamo, infine, che la mente in cui leggiamo come fossimo veggenti ci è stata donata da un uomo perché da egli creata. Tolstoj, appunto.
Quel bagaglio che Mascia, inizialmente, porta con sé con felicità sarà ben presto trascinato con sofferenza perché carico di errori e vanità. L’uomo che ha amato non è più colui con il quale condividere la scena bensì è diventato egli stesso uno spettatore cupo e amareggiato che osserva la moglie vivere gli anni che realmente possiede e non quelli che lui vorrebbe reclamare. Con delicatezza e, permettetemi, maestria Tolstoj riporta la consapevolezza di Mascia sulla Terra.

Non più le stelle e le danze ma la sofferenza di un amore ormai consunto e solamente ricordato che si vuole riportare, forzatamente, al tempo presente. É Mascia stessa a spegnere le luci dei riflettori di San Pietroburgo puntati su di essa e a voler ritornare in quel teatro quieto e silenzioso che era la sua casa in campagna ma niente è come prima. Può un uomo entrare nello stesso fiume due volte? La risposta è no perché, come Eraclito insegna, né l’uomo né il fiume saranno gli stessi.
Molti dubbi e poco fervore, questa volta, hanno accompagnato la discussione del gruppo della “Pizza Letteraria”. Pochissimi i pareri positivi, molti quelli che esternavano dispiacere nel conoscere una nuova forma di Tolstoj fino ad ora sconosciuta.
Opere come “Anna Karenina” sono difficili da schiodare dalla mente tuttavia colui che scrisse migliaia di pagine destinate ad influenzare la cultura dei posteri possiede la stessa mano di colui che diede vita ad opere minori create in gioventù contenenti, forse, concetti che la vita stessa gli ha permesso poi di approfondire.
L’ultimo articolo de “Il libro del mese”: Le braci.