Ovvero
un ciliegio ibleo nella Grande Guerra
di Saverio Senni
Ciliegiologo. Con questo neologismo recentemente sono stato contattato da una scuola elementare che aveva piantato un ciliegio nel proprio giardino e mi ha fatto piacere essere stato definito così.
Nutro da anni per il Prunus avium, il nome botanico del ciliegio dolce, una passione e un interesse come per nessun’altra pianta.
Negli anni, sul ciliegio e sui suoi frutti ho riempito un baule virtuale pieno di spunti, aneddoti, citazioni presenti nelle arti letterarie, in quelle musicali, pittoriche, cinematografiche e via dicendo, collezionando una raccolta che non credo possa trovare uguali per altre specie frutticole.
Ma andiamo con ordine.
È scientificamente assodato che una delle caratteristiche peculiari delle ciliegie è che queste… si rubano! Difficile trovare qualcuno che almeno una volta nella vita non abbia assaggiato ciliegie da alberi incontrati per caso nel corso di una passeggiata in campagna. Non desiderare le ciliegie d’altri, o meglio non sottrarle senza essere autorizzato dal proprietario. Era scritto addirittura in alcuni Statuti Comunali medievali, come quello di Celleno (VT) del 1457 che sanciva le penali monetarie per chi lo avesse fatto.
Ora il mio baule immaginario a questo proposito ospita anche un po’ di Sicilia, in particolare delle campagne chiaramontane. Mi riferisco al racconto di un furto di ciliegie che ritengo uno dei più belli della letteratura italiana, per la sincerità del testo, per il linguaggio utilizzato e per il contesto in cui si verificò. È quello raccontato da Vincenzo Rabito in Terra Matta (Einaudi) che avvenne nelle campagne tra Vizzini e Chiaramonte il 23 giugno del 1917.
Reclutato come Ragazzo del ’99, nel febbraio del ’17, e trasferito a Siracusa, Vincenzo Rabito voleva riabbracciare la famiglia prima di partire per il fronte da dove era sicuro che non sarebbe più tornato vivo. Organizza così una fuga a Chiaramonte con il compaesano e coetaneo Vito Panasia, fuga che doveva essere molto breve per non far scattare l’accusa di diserzione, punita in quei tragici tempi anche con la fucilazione.
Giunti in treno a Vizzini, i due proseguono a piedi lungo una “trazzera” per arrivare nei pressi di un mulino dove Vincenzo sapeva che c’era un albero di ciliegie:
“che era propia il suo tempo delle cilieggie per potere manciare. E io voleva vedere se li albere, di queste cilieggie, ni avevino, perché, se ni avevino, ci le manciammo e poi ci arreposammo… e delle cilieggie ci n’erino tante che avemmo voglia di manciare, che cilieggie sopra di quelle albere ci n’erino piú assaie delle pampene. Cosí, senza passare permesso annessuno, abiammo scarecato li zaine, il fucile l’abiammo messo a peso all’albero, e ci abiammo messo ammanciare cirase con Vito, frutto tanto piacevole. Un ricordo pieno di dolcezza perché, precisa poco dopo Vincenzo “erimo molto felice che manciammo cilieggie.”
Con quella straordinaria capacità di Rabito di descrivere situazioni che in un attimo mutano radicalmente, racconta come vengono scoperti dal molinaro che inizia a tirare pietre sull’albero e libera il possente cane da guardia della masseria il quale da sotto l’albero cerca di mozzicare Vito.
“Restammo spaventate, io con li pietre e Vito con il cane. E diciammo: – Maledetta la pancia!
Ma non era questo lo spavento. Che non venne il solo molenaro, che venne magare la molenara a terare pietre e fare tanto bortello, arrabbiate tutte piú forte del cane, e tiranno pietre e dicento: – Descraziate, stanno venento li carabiniere e cosí vi porteranno in calera, e ora vi ammazammo a corpe di pietra!”
E la venuta dei carabinieri sarebbe stata molto peggio di quella dei molinari!
Ma ecco di nuovo un colpo di scena. Il molinaro e sua moglie si rendono conto che i due sono soldati e “invece di trare pietre e dirime: «Latre, vi miritereste ammazate!» – come ni l’avevino detto –, si hanno messo a piancere. E cosí, piancento piancento, ni hanno detto: – Figlie mieie, manciateve magare l’arbiro! Io e Vito restammo senza parola”.

I due scendono dall’albero e i molinari aggiungono “Figli mieie, perdonatoce, perché noi magare ci avemmo 2 figlie come siete voialtre soldate –. E piancevino, facendoce vedere li fatocrafieie dei suoi 2 figlie.”
L’avventura non poteva che finire a tavola, come nel miglior stile delle memorie rabitesi: “cosí, ci hanno fatto la pasta asciuto con uno bello coniglio a spezatino e vino, e abiammo manciato tanto bene che io e Vito cosí non ci avemmo manciato maie”.

La conclusione della vicenda, letterariamente parlando, è la “ciliegina” sulla torta:
“Arrivati a Chiaramonte in 10 minute, fuommo nella chiesa della Madonna delle Crazie, che abiammo fatto la prechiera doppo tante bestemie che avemmo fatto con quelle molenare che ci stapevino ammazando a petrade e con quello cane che ci ha dato ummuzecone a Vito che ci ha strapato li pandalone, e io una pitrada nella testa ho preso. E perché? Per la cerasa!”

Un inno involontario alla cerasa, la cui forza attrattiva ha fatto dimenticare che con quel furto i due Ragazzi del ’99 hanno rischiato la morte per fucilazione.
Chi ha colto di Terra matta la grandezza di questo passaggio, apparentemente secondario, è il compianto attore Marcello Perracchio il quale, ricevendo nel 2008 il Premio Xifonia, scelse di leggere proprio questo episodio, lettura riascoltabile a questo link:
Ricordando Rabito, e Perracchio insieme a lui, mi sforzo di chiudere, in quanto ci sarebbe molto altro da aggiungere, perché, come è noto, una cerasa ne tira sempre un’altra.