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Serafino Amabile Guastella

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di Stefano Vaccaro

Nel suo passaggio a più riprese per i comuni iblei che fino all’inizio dell’Ottocento componevano la Contea di Modica, Leonardo Sciascia riesce ancora a cogliere “qualche reliquia della serenità del vivere“, a toccare – fuggevolmente – “il giusto della vita. O la sua illusione“.

Che questi luoghi ne diano ancora, l’illusione di un vigore reale o apparente, non è cosa da poco e non è neppure cosa recente se è vero che, per la sua floridezza economica e un contesto socio-culturale differente rispetto al resto della Sicilia, la Contea di Modica ha goduto nel tempo della reputazione di essere un’isola nell’isola, ovvero una potente enclave dotata storicamente di ampia autonomia politica.

Leonardo Sciascia

Modica, nei fatti, possedeva tutti gli uffici di una capitale e capitale lo era davvero con un Tribunale di gran Corte ed una Curia di appello per le cause civili e penali, con uno stuolo di notai e avvocati a far coppia con le più importanti cariche amministrative, difensive e giurisdizionali.

Fregiarsi del titolo di Conte di Modica significava detenere il potere su uno dei più grandi feudi siciliani, lo compresero bene talune famiglie aristocratiche che, con la spada o con un anello nuziale, tentarono di prenderne il potere.

Alle fortune della Contea si sono alternate vere e proprie saghe familiari, Sciascia in una introduzione edita per Electa nel 1983, La contea di Modica, accanto ad una selezione di foto di Giuseppe Leone, ne ripercorre in breve la storia, affascinato dalle vicende umane di dame e cavalieri, dalla famiglia Chiaramonte, dai Cabrera e dalla leggenda del delirante amore di Bernardo per la regina Bianca di Navarra, dagli Enriquez e Vittoria Colonna, dal 1606, eponima della città da lei fondata.

Giuseppe Leone e Leonardo Sciascia; a destra) copertina della prima edizione de La Contea di Modica (Electa, 1983)

Un piccolo regno nel regno. “Sicut ergo in regno meo et tu in Comitato tuo”: come io nel mio regno tu nella tua contea. Così nel diploma del 20 giugno 1392 con cui re Martino concedeva a Bernardo Cabrera la contea che era stata dei Chiaramonte, all’aragonese ribelle. Magnifica famiglia, quella dei Chiaramonte. Troppo occupata a guerreggiare e a congiurare, troppo in gara coi re, troppo ostinata nel difendere il proprio privilegio, di più nobile ostinazione e coraggio rispetto ad altre famiglie allora quasi quanto la loro potenti […]. E lo splendore, la forza e l’ascesa della famiglia, si riverberavano nella vita del feudo, se lungamente tra quelle popolazioni ne durò la leggenda. O forse fu l’irreparabile rovina, la tragica estinzione, a impressionare il sentimento popolare e a far durare nella memoria quel nome, quello splendore. O forse, e anche, ci fu una mutuazione di fantasie cavalleresche (quelle, per intenderci, che molto più tardi daranno luogo all’opra di pupi) nella memoria storica: promossa, probabilmente, dal nome appunto – Chiaramonte.

Nel tracciare la storia della Contea di Modica, Sciascia si affida ad un manipolo di studiosi autoctoni i quali, già a partire dal XIX secolo, mirano a ricostruire a più riprese il contesto storico, ma anche economico, politico e culturale dell’entità feudale d’appartenenza.

Dall’avvocato Filippo Garofalo, autore nel 1856 dei Discorsi sopra l’antica e moderna Ragusa, apprende come la divisione delle terre in enfiteusi sia stata, in questa parte di Sicilia, meno soggetta “a dritti angarici e soprusi feudali” e invece luogo d’elezione di un’arricchita classe borghese.

Quasi cinquant’anni prima, nel 1808, l’economista Paolo Balsamo concludeva il Viaggio fatto in Sicilia e particolarmente nella Contea di Modica (1809), non sapendo ben decidere “se mai Ragusa o Modica sia la più facultosa; […].

Briganti
Paolo Balsamo e il frontespizio del “Giornale del viaggio fatto in Sicilia” (1809)

Definito dallo scrittore di Racalmuto l'”impareggiabile descrittore della contea”, è il barone dei “villani” Serafino Amabile Guastella – autore, tra l’altro, della felicissima opera che è L’antico carnevale della contea di Modica (1877) – a destare maggiore attenzione in Sciascia che più volte ha modo di menzionare nella sua narrazione del comprensorio ibleo.

A lui guarda per uno stornello popolare con protagonista Costanza Chiaramonte, per le guerre di santi patroni volentieri sfociate in faziose lotte paesane e, non da ultimo, all’antropologo chiaramontano si rivolge per scrivere in breve sulla poesia, la pronunzia e la grammatica dei sottodialetti dell’ex contea di Modica…

Serafino Amabile Guastella e il frontespizio del suo “L’antico Carnevale della Contea di Modica” (1877)

di Giuseppe Cultrera

Nell’area iblea la personalità e l’opera del letterato Serafino Amabile Guastella (Chiaramonte 1819 – ivi 1899) fu predominante nella seconda metà dell’Ottocento. Molti dei suoi discepoli ne furono influenzati. Specialmente Saverio Nicastro del Lago, anche lui scrittore e poeta, che progettò e curò l’opera omnia. Editore ne fu il compaesano Giuseppe Vacirca (1891 -1966) che con il giovane aiutante Giovanni Fornaro (1912 – 1996), gestiva una piccola tipografia di Chiaramonte, già appartenuta ai Fratelli Ferrante.

L’opera prevedeva tre volumi di grande formato di circa 300 pagine ciascuno. In realtà venne stampato solo il primo volume e fu (mi raccontava don Giovannino Fornaro che ne fu il diuturno compositore) un flop; anche l’intervento economico del “Sindacato Autori e scrittori della provincia di Ragusa”, garantito dal Nicastro, si rivelò fittizio.

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S. A. Guastella. Stampa colorata di G. Puccio. 1899. – Copertina del primo volume delle OPERE del Guastella.  Ritratto fotografico di Saverio Nicastro del Lago

Di stampare gli altri due volumi, pertanto, non se ne parlò più.

Anzi quella catasta di quinterni da rilegare, man mano che arrivavano le richieste di copie, divenne d’impaccio nei locali, mai abbastanza capienti per la tipografia.

Sicchè un giorno –me lo raccontava, parecchi anni fa, lo stesso don Giovannino che era divenuto proprietario – si stufò di quel cumulo ingombrante di carta stampata che sottraeva spazio al lavoro e alle macchine:

 «Lo regalai al vittoriese della pescheria di S. Giuseppe, che spesso veniva in tipografia a chiedermi ritagli di carta inutilizzabili. Per un paio di giorni trafficò a svuotare l’angolo dove c’erano oltre 500 copie, in migliaia di ottavi sciolti».

Così i quinterni del primo volume dell’Opera omnia del Guastella finirono nella pescheria di don Neli per un uso che è facile intuire. Le sparute copie, in giro, restano a testimoniare un’utopia. Come, la fine esemplare delle altre, il limite di ogni progetto culturale. E un monito.

Il ministro di Berlusconi sintetizzava: Non è che la gente la cultura se la mangia! Che poi è l’ironico e caustico “carmina non dant panem” dei latini. (Ecco perché è un peccato trascurare lingua e cultura latina. Ma è inopportuno rammentarlo a quanti, inopinatamente, si sono occupati di scuola e beni culturali).

cultura

 

di Giuseppe Cultrera

Il contadino alzò il viso sudato e guardò stupito verso la marina. Un brulichio di uomini armati copriva la spiaggia: alcuni ancora erano sulle imbarcazioni, altri si avviavano lesti verso l’interno.

«Mamma mia i greci» urlò e saltato in groppa all’asino, abbandonando zappa e bisaccia, lo incitò ad andare.
«Corri asino mio, corri che qui si mette male». E giù a spronarlo con le gambe e col punteruolo.
L’asino arrancava per la polverosa trazzera con tanto di lingua e quel peso che si faceva sempre più insopportabile. A un certo punto esausto volse il capo al padrone: «Tu dici che siamo nei guai. Ma sono io che ti porto in groppa!».

la logica dell'asino
Asino, disegno (Corriere della Sera) – La nobiltà dell’asino, xilografia, Venezia Bartoli, 1661

«Certo» fece il contadino.
«E se i greci ci acchiappano chi porterò in groppa?»
«I greci», rispose lesto il contadino.
«E che mi faranno i greci?»
«Quello che ti faccio io, penso»
«Allora» ragliò l’asino fermandosi «se per me non cambia niente, e asino dovrò continuare a essere, perché correre a perdifiato? Fatti tuoi. Peni e bbeni cu ll’ha si teni!»
E si piantò lì. Mentre dalla pianura camarinese l’orda dei nuovi conquistatori si approssimava minacciosa.

la logica dell'asino
J. A. Klein, Asino, 1823, acquaforte – G. M. Mitelli, Asino, incisione, 1678. Milano Civica raccolta Bertarelli

A metà del secolo scorso la presenza dell’asino nella vita quotidiana, specialmente del contadino, era ancora abbastanza frequente: come bestia da soma o da lavoro ma specialmente come cavalcatura. Ma nel cinquantennio precedente e nei secoli ancora prima era stata precipua la sua presenza come attivo “compagno” di fatica. Il Guastella, in un icastico passaggio delle sue ‘parità’, ricordava che la morte dell’asino, per il contadino, era un tragico evento. La piangeva più di quella della moglie: che sarebbe stata facile sostituire con un’altra, anche più giovane e forte, mentre per ricomprare l’asino ci volevano un bel po’ di soldi, che spesso non possedeva.

la logica dell'asino
F. Palizzi, Asino, matita di grafite, sec. XIX. Muzi, Stampa popolare, secolo XIX

Testardo come un asino si dice ma anche mite come l’asino. Inoltre, gli si attribuiva, forse per via di questa sua introversione, una durezza di comprendonio: difatti si dava dell’asino a chi non brillava per intelligenza.

Insomma, non ha avuto grandi simpatie nel passato. Adesso che è del tutto sparito dalla vita quotidiana dei lavoratori della terra e stentatamente si ricostruiscono allevamenti (per l’utilizzo del prezioso latte d’asina o per scopi turistici) ci accorgiamo che la sua discreta presenza era un tassello vitale del paesaggio umano. Abbiamo anche perduto alcune tipologie (quella pantesca o asino di Pantelleria, ad esempio è stata dichiarata estinta dal WWF) e altre, autoctone siciliane, si recuperano o mantengono attraverso l’Istituto per l’Incremento Ippico (la razza ragusana è tra queste). Rivederlo nei campi o negli allevamenti è una piacevole sorpresa.la logica dell'asino

di Giuseppe Cultrera

A Natale si regala anche il libro: generalmente si tratta di bestseller o di novità fresche di stampa. Si compra, si mette persino sotto l’albero e si distribuisce la notte del 24. Poi il destinatario lo legge, oppure lo ripone sul comodino in attesa di aver il tempo di darci un’occhiata; o, caso più comune, lo abbandona al suo destino di solitudine e di inutilità.

Assodato che leggere non è una prescrizione ma un atto di libertà e di amore, vorrei proporvi per Natale qualche titolo di libro. Che non dovrete comprare (e anche se vorreste non lo trovereste in libreria) ma potrete rintracciare, nella vostra stessa casa, in biblioteca, in qualche bancarella di libri usati. Uguale il titolo e il tema per i quattro diversi percorsi. Intriganti e vivaci.

La Contea di Modica: quattro percorsi
Fine ottocento. Notabili e politici ad Ibla. Sulla destra il sindaco dott. Raffaele Solarino

La contea di Modica è il titolo del lungo saggio che introduce i Canti popolari del Circondario di Modica di Serafino Amabile Guastella, pubblicato a Modica nel 1876. Un saggio che è un racconto sugli abitanti di quella parte della Sicilia d’oriente che dal XV secolo al XIX si chiamò Contea di Modica e che oggi è gran parte dell’attuale provincia di Ragusa. Una introduzione che è corposa quanto il soggetto del libro, vale a dire la raccolta di Canti popolari; e forse sarebbe stata anche superiore, se il tipografo non avesse tralasciato o volontariamente cassato un paio di quinterni.

La Contea di Modica: quattro percorsiv
Ritratto fotografico di S. A. Guastella (1819/1899). Il frontespizio dei Canti popolari del 1876 (a destra)

“Il tipografo mi assassinò in modo indegnissimo – si lamentava con l’amico Giuseppe Pitrè in una missiva del 27 settembre 1876 – e non solo negli errori tipografici, che qualche volta feriscono il senso, e qualche altra volta la grammatica, ma con l’aver tralasciato di stampare per lo meno una terza parte della prefazione, cioè una decina di pagine, forse le più importanti.”

Una ragione in più per addentrarsi nella lettura di una delle prime opere di Guastella (tra l’altro mai ristampata) che riserva non poche sorprese, per la scrittura, le notazioni storiche e antropologiche, la verve e l’ironia abbondantemente profusa.

La Contea di Modica: quattro percorsi
Il dott. Raffaele Solarino (1844/1903); a destra copertina di una ristampa anastatica de La Contea di Modica

Vent’anni dopo, il ragusano Dott. Raffaele Solarino, che fu pure sindaco della sua città, pubblica il primo volume di una impegnativa ricerca storica, intitolandola La Contea di Modica (il secondo uscirà postumo nel 1905). Rimane ancora un pilastro della storiografia iblea, per la vastità dei dati e della documentazione d’archivio, specialmente per il periodo medievale. Una lettura, in verità, non facile per la mole e la specificità della trattazione, ma con numerosi varchi e suggestioni per il lettore curioso. Esistono varie ristampe.

La Contea di Modica: quattro percorsi
Nobildonne a passeggio sulla spiaggia. Foto di Carmelo Arezzo barone di Trifiletti (1871/1899)

Invece, è gradevole e ‘leggero’ il racconto degli usi e costumi degli abitanti di questa parte della Sicilia d’oriente, specie se a tesserne la trama è una colta donna del settentrione, venuta a stabilirsi a Ragusa dopo aver contratto matrimonio col nobile Paolo La Rocca Impellizzeri. La piemontese Esther Manari, a differenza della maggior parte delle donne di Sicilia (comprese le nobildonne), ha frequentato un corso regolare di studi. Scrive e pubblica alcune raccolte di poesie, si impegna socialmente nell’istruzione e nel riscatto delle donne meno abbienti anche con la creazione di corsi di avviamento al lavoro.

Possiamo dire che è una donna moderna. E lo si legge nella sua Contea di Modica: indagini del folklore (1912) dove riti ed antiche costumanze, comprese le superstizioni, vengono porte al lettore come sostrati di un’antica cultura o aspetti identitari di varie comunità. Così le feste civili e quelle religiose, la cucina, la vita sociale di cento e più anni fa rivive nelle pagine briose della piemontese che divenne ragusana. Una curiosità: l’opera, dedicata a Giuseppe Pitrè, fu premiata con medaglia d’oro alla Esposizione Etnografica di Buenos Aires del 1911.

La contea
La Contea di Modica della baronessa Ester La Rocca Manari (1910) (a sinistra). La torre di guardia di Mazzarelli trasformata in residenza estiva dal barone La Rocca Impellizzeri nel 1885 (al centro). Un volume di versi della baronessa La Rocca Manari (a destra)

La Contea di Modica di Sciascia e Leone (1983) è quella fra le quattro ancora reperibile in qualche libreria, oltre che nelle bancarelle e librerie antiquarie per le precedenti edizioni, ed è quella che abbina la scrittura arguta ed essenziale di Leonardo Sciascia alle immagini evocative e visionarie del fotografo ibleo Giuseppe Leone. Il racconto della Contea, insomma, si fa immagini e parole per i lettori che non conoscono la Sicilia e per coloro che ci vivono, ma la riscoprono singolare e magica.

La contea
Giuseppe Leone e Leonardo Sciascia (a destra); copertina della prima edizione de La Contea di Modica (Electa, 1983)

Un consiglio: se trovate in qualche bancarella o antiquario la mitica prima edizione della Electa (1983), fatevi un regalo di Natale! È uno dei prodotti editoriali degli anni ’80 più significativi. Per l’impaginazione, la carta, la rilegatura, la essenziale eleganza. Parola di bibliotecario.

Serafino Amabile Guastella, Canti popolari del Circondario di Modica, Modica, Tip. Lutri & Secagno, 1876.
Raffaele Solarino, La Contea di Modica, 2 volumi, Ragusa, Piccitto & Antoci, 1895,1905. (Varie ristampe anastatiche).
Ester La Rocca Manari, La Contea di Modica. Indagini del Folklore, Ragusa, Tip. Vincenzo Criscione, 1910.
Leonardo Sciascia, Giuseppe Leone, La Contea di Modica, Milano, Electa, 1983. (Varie ristampe. In catalogo nelle Edizioni di passaggio di Palermo).
La contea
Una foto di Giuseppe Leone nel volume La Contea di Modica (1983)

Immagini: Archivio Utopia Edizioni.

di Federico Guastella

Dal poderoso scritto “Il maestro di Regalpetra” di Matteo Collura apprendiamo che una copia di Fatti diversi di storia letteraria e civile (Sellerio, Palermo 1989), in cui sono raccolti diversi saggi, fu consegnata da Elvira Sellerio a Sciascia prima della sua morte. E’ il quarantatreesimo libro cui egli ha dedicato le ultime attenzioni. Lo tiene in mano mentre aspira alcune boccate da una sigaretta che subito spegne. L’opera, il cui titolo dal gusto francesizzante richiama quella di Croce (da lui preferita), tratta argomenti sull’essere siciliani, tra cui scrittori e artisti che della Sicilia hanno dato un’immagine di universalità.

(foto da Lariobook)

Tre i bei saggi dedicati al territorio della provincia di Ragusa: La contea di Modica, Invenzione di una prefettura, in cui recupera il pittore del regime Duilio Cambellotti che decorò i saloni del palazzo prefettizio, Guastella, il barone dei villani. Soffermiamoci in particolare sull’ultimo, essendo Guastella un singolare autore dell’Ottocento siciliano nominato per la prima volta nell’opera Morte dell’inquistore (Pubblicato da Laterza nel 1964 e definito da Sciascia come «breve saggio o racconto»). E’ probabile che egli abbia scoperto la presenza di Serafino Amabile Guastella leggendo il libro “Del Sant’uffizio a Palermo e di un carcere di esso” (opera postuma “di strettissima stampa”, curata da Giovanni Gentile), scritto dal demologo dell’Ottocento Giuseppe Pitrè.

Serafino Amabile Guastella

Parlando della pena del “collaro” (un anello di ferro, infisso in una murata della piazza, il quale si apriva o chiudeva con apposito congegno), diffusa anche a Racalmuto, Sciascia cita i versi raccolti da Guastella, trascritti ne “I canti popolari della Contea di Modica”, libro rarissimo e non più pubblicato da quando per la prima volta fu dato alle stampe (1876). Indubbiamente lo scritto dovette destare la sua curiosità, e sicuramente l’avrà nel frattempo reperito in qualche biblioteca. Se ne servirà in modo analitico nel saggio sulla Contea di Modica, riportando distici e stornelli su fatti storici, verseggiati dal popolo.

Ecco un esempio. Quando il popolo parlava del matrimonio di un’orfana, alludeva a Venezia Palazzi che, sposa di Simone Chiaramonte, aveva istituito una dote per le orfanelle del paese. Da qui i versi che ricordano la circostanza:

“Vinezia, l’armi santi fannu festa
C’addutàstivu a tutti l’urfaneddi”

Dopo i Chiaramonte, Bernardo Cabrera, nel 1392 in seguito all’investitura fatta da Re Martino, ricevette, con i più ampi privilegi il territorio della Contea di Modica e un distico – scrive il Guastella – udito da una popolana di Modica, pare potesse adattarsi a quel Giovanni Cabrera, prima divenuto esoso con le angherie, poscia benemerito con le concessioni enfiteutiche ai vassalli:

“Crapuzza, ca ppi nui si’ crapa r’oru
Rinnillu, si spiddiu lu tiempu amaru!”

La Contea di Modica ai tempi di Bernardo Cabrera

Puntuale la conoscenza di Sciascia dei testi di Guastella: specificamente Padre Leonardo e Le parità e le storie morali dei nostri villani di cui si occuperà nel saggio Feste religiose in Sicilia (1965), dove sostiene che il mondo religioso in Sicilia “ha radice in un profondo materialismo, in una totale refrattarietà a tutto ciò che è mistero, invisibile rivelazione, metafisica”. Lo studio confluirà poi nell’opera La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia (1970), in cui nel saggio “Verga e la libertà” (datato 1963), oltre a citare un brano dei Canti popolari di Guastella sulla natura ribelle del contadino modicano, riporta il canto della messe, considerato “il canto della scatenata anarchia contadina, dell’odio verso ogni altra classe, e categoria sociale, della devastazione di ogni valore”.

Gustoso il brano tratto dal racconto Padre Leonardo sulla Guerra di santi di verghiana memoria a testimonianza di una “sicilitudine” che abbracciava il fanatismo come deformazione del significato religioso. Poi don Leonardo prende in esame l’opera Le parità e le storie morali dei nostri villani, inquadrando le parabole guastelliane, raccolte dalla viva voce popolare, in un organico antivangelo: «E crediamo sia difficile trovare, nell’animo e nella cultura di altri popoli, una visione della vita così rigidamente e coerentemente in opposizione al messaggio evangelico».

Incisione di G. Vuiller, da La Sicilia. Parigi, 1896 (particolare)

A sostegno della sua tesi, riporta una parabola e una storia: la prima si riferisce all’egoismo di San Paolo, rappresentato come un capo-mafia “accorto e cinico” (sarà ripresa nell’opera Nero su Nero, pubblicata da Einaudi nel 1979 e da Adelphi nel 1999); la storia è quella di fra Illuminato, monaco questuante e sant’uomo di stampo francescano che vorrebbe andare a denunziare un assassinio, ma in nome dell’omertà viene dissuaso dal farlo da tre animali (un coniglio, un cane, un agnello, una statua): “Dio non vuole che lo denunzi”. In un primo tempo egli resiste agli insulti, ma alla fine cede, scegliendo di tacere, convintosi che la volontà di Dio è superiore alla decisione di volere giustizia.

La conclusione di Sciascia è severamente obiettiva: «E tutte le altre “parità” e storie contengono crudi rovesciamenti della morale cristiana, prescrivono – avallati dai santi e dal Signore in persona – comportamenti inflessibilmente asociali e antisociali: il Signore che confida ai poveri che il principale loro male è lo sbirro e che raccomanda ad Adamo di usare sulla moglie il bastone (che per questo servizio non si chiamerà più bastone, ma Ragione); san Gerlando che fa il ladro di mestiere; san Giuseppe che va a rubare fichi con Gesù Bambino per mano, san Martino la cui santità non vien meno anche se eccessiva è la sua dedizione al vino; san Francesco di Paola che a cuor leggero fa testimonianza falsa, san Cristoforo, per sua parte parricida, che consiglia a sant’Elmo di praticare il contrabbando, e così via”.

Leonardo Sciascia (foto da huffingtonpost.it)

In conclusione, ecco la domanda: per Sciascia chi è Guastella, l’aristocratico di Chiaramonte Gulfi? Quale posto occupa negli studi del folklore e nella letteratura? Profonda l’intuizione. Il barone dei villani, utilizzando la definizione di Cocchiara, è visto in una zona di equidistanza tra Verga e Pitrè: «Ora a me pare che Serafino Amabile Guastella stia, con la sua opera, come un punto intermedio tra “l’epopea del vicinato, così come veniva svolgendosi nei cortili e nelle case nei pomeriggi estivi e nelle sere invernali, e I Malavoglia e le novelle rusticane del Verga…

E dicendo “un punto intermedio” non voglio indicare un valore letterario che sta tra la registrazione di una voce narrante (coi mezzi del Pitrè o con quelli di oggi) e il suo trasformarsi, trasmutarsi e decantarsi – in uno scrittore come il Verga – in memoria e fantasia; voglio dire, piuttosto, di un intendimento, di un tipo di attenzione, di un giudizio per cui quel mondo, il mondo contadino della contea di Modica nella seconda metà dell’Ottocento, viene come assunto in vitro al di sopra del documento e prima che lo si assuma nel sentimento: dando luogo a una specie di genere letterario che tiene più del “conte philosophique” che del romanzo o racconto di verismo lirico qual viene manifestandosi in quegli anni».

(Da sinistra) Giovanni Verga e Giuseppe Pitrè

di Giuseppe Cultrera

La Gnà Bastiana Albani intesa Tosca guardò fisso negli occhi il professore Serafino Amabile Guastella:

«Questa storia ha a che fare con la vostra famiglia.»

«Ah sì – fece il barone – e me la dica.»

«Tanto tempo fa c’era a Chiaramonte un dotto e pio sacerdote, di quelli di cui oggi s’è persa la semenza, che fu nominato procuratore della chiesa di San Silvestro. Costui, che di cognome faceva Guastella e sicuramente era un vostro antenato, scoprì che il sagrestano era un poco di buono. Non ci pensò due volte a fare rapporto ai superiori, farlo licenziare e allontanare dal paese. Questi, che era un tipo perfido e malvagio, giurò che gliel’avrebbe fatta pagare.parenti serpenti

L’occasione si presentò una decina d’anni dopo quando il pio sacerdote morì all’improvviso. Saputolo il sagrestano, con fare mellifluo e fingendo contrizione e pietà, si presentò a casa del morto, per aiutare a comporre la salma: in effetti il perfido – come fu e come non fu – ne profittò per legargli le gambe.»

«E che vuol dire, questo» – fece incuriosito il professore Guastella.

«Ah non lo sa? Allora glielo dico io. I nostri antichi ci hanno tramandato – ma è scritto anche nei libri di voialtri signori – che dopo la morte l’anima, poveretta, intraprende un viaggio periglioso e deve attraversare un ponte strettissimo, come la lama di un rasoio e lungo lungo. Tale ponte porta all’aldilà. Ma sotto ci sta il nostro Nemico che vomitando fiamme impaurisce le povere anime: per fortuna che c’è San Giacomo che interviene a sorreggerle e incoraggiarle accompagnandole durante il terribile tragitto. Capisce, vostra signoria, che con le gambe legate tale “viaggio” è impossibile. E lo sapeva bene quel vastàsi del sagrestano, che così metteva a segno l’agognata vendetta.parenti serpenti

Passati tre giorni capitò che una notte una donna scendendo dalla pusterna col cantro in mano (voscenza lo sa bene che alle prime luci si suole uscire per svuotare questi contenitori) le vanno gli occhi sul tetto della chiesetta di Santa Luvè (San Silvestro) e per poco non le venne un colpo: uno strano cane bianco spasseggiava sulle tegole, da una punta all’altra. La povera donna cominciò ad urlare dalla paura e i vicini che accorsero, rendendosi conto che si trattava di roba soprannaturale corsero al fonte della chiesa, e presa l’acqua benedetta, la spruzzarono verso il cane. Anzi qualcuno più coraggioso lo apostrofò: «Ti scongiuro in nome di Dio dimmi chi sei?». Ma il cane, nonostante l’acqua benedetta e gli scongiuri, continuava imperterrito la sua passeggiata sul tetto.

parenti serpenti

Nelle vicinanze c’era una monaca di casa, di santa vita, nota come suor Marchisia. Così tutti corsero da lei per consiglio e aiuto.

“Cari vicini miei – sentenziò la monaca – non abbiate paura perché quello non è un cane ma il prete Guastella, al quale il sagrestano ha legato i piedi.”

Mamma mia che successe! Corsero a disseppellire il prete, mentre altri facevano i conti col perfido sagrestano. Ma comunque la povera anima del pio sacerdote restò per strada e ancora vaga senza meta. Anzi di tanto in tanto riappare sul tetto della chiesa di Santa Luvè in forma di un cane bianco, diafano. Io per la verità una volta credo di averlo visto mentre a tre ore di notte andavo a prendere l’acqua al Ferriero. E fu un gran scanto

«E non c’è un rimedio per liberare quella povera anima?»parenti serpenti

La Tosca fissò per un po’ il barone Guastella:

«Il rimedio c’è, ma è come se non ci fosse. Perché tocca ai parenti. Ma se non l’hanno attuato quelli antichi, figuriamoci se vi spèrcia a voi, quelli di ora. Non vi può sperciari proprio.

Per liberarlo, dicono, bisognerebbe che un parente per un anno e un giorno digiunasse a pane e acqua, e desse un tumulo di spiccioli ai poverelli.»

Si fermò di colpo la gnà Bastiana e guardandolo fisso, atteggiò la bocca a finta comprensione: «Campa cavallo!»

chiaramonte gulfi, san silvestro
Panorama di Chiaramonte Gulfi e la chiesetta di San Silvestro, uno dei più antichi edifici sacri della città

Questa narrazione è liberamente tratta da: S. A. Guastella, Vestru, nota illustrativa XII.