L’articolo di oggi è tratto da un articolo di Giovanni Portelli, di Scicli, autore di numerose ricerche e pubblicazioni nel settore etnografico, e pubblicato nel volumetto n.3 di “Senzatempo” del 2010, edito dal compianto Giovanni Bertucci.
di Redazione
Pare che una delle maggiori preoccupazioni dei legislatori medioevali (e pure oltre) fosse l’eccessiva ostentazione femminile. L’abbigliamento sfarzoso delle donne poteva diventare motivo di confusione nella società per colpa delle donne “disoneste”, che nei luoghi pubblici spesso potevano apparire abbigliate in maniera più lussuosa rispetto alle donne “oneste”.
Si narra addirittura che Luigi IX di Francia, fratello di Carlo d’Angiò, fu il primo Re a minacciare serie conseguenze per le meretrici abbigliate in maniera sfarzosa. Soprattutto dopo l’episodio che vide coinvolta sua moglie: Margherita di Provenza. Questa, infatti, recandosi un giorno in Chiesa, fu avvicinata da una donna di malaffare lussuosamente vestita. Scambiata per una gran dama, la moglie del Re l’abbracciò e la baciò come era uso fare all’epoca. Fu solo dopo l’indignata reazione delle “oneste” dame presenti in chiesa che la povera Regina Margherita comprese l’imbarazzante equivoco in cui era caduta.

I Viceré in Sicilia, già a partire dal 1534, emanarono diverse “prammatiche” che regolavano l’abbigliamento delle prostitute, perché fosse distinguibile da quello delle gentildonne. Ed essendo considerata materia assai intrigata, si stabilì addirittura di istituire un ufficio speciale: l’Ufficium bacchettae.
Alle meretrici venne inibito di portare manti, vestiti di seta o di oro e “nessuna spetie di oro, né argento, né seta, né gioie, né di potere andare accompagnate con homini, né con più di due femmine”. Il motivo dichiarato nella disposizione era quello di poter distinguere tra donne “honeste et disoneste, maximamemente nelli habiti vestiti et apportamenti”.

A seguito di queste disposizioni, non potendo coprire il capo con il manto, le prostitute non andarono più a messa né alle prediche. Solo qualche anno dopo venne loro nuovamente concesso di portare il manto, ma solo dietro il pagamento di un obolo mensile a favore dei monasteri delle Repentite (nel frattempo sorti un po’ ovunque in Sicilia, proprio allo scopo di dare ricovero alle donne traviate e pentite).
Questi monasteri assunsero il nome di “rifugi”, “ritiri” “reclusori”, “conservatori delle discole e delle male maritate” e ben presto divennero famosi quali luoghi di miserevole e orrenda clausura. A costituire pericolo e scandalo, secondo il comune modo di sentire e giudicare la dissolutezza, non era soltanto l’abbigliamento, ma soprattutto la bellezza.

In un Istituto di Repentite fondato a Messina nel 1542, infatti, la donna deviata e pentita per essere accolta doveva essere sana di corpo, non maritata, non maggiore degli anni venticnque e, anzitutto, bella. La bellezza era considerata fonte di pericolo anche dai numerosi legati di maritaggio, che prescrivevano di preferire tra le candidate quelle più belle, perché ritenute più pericolose.
Alle numerose proibizioni facevano da triste accompagnamento le pene che potevano essere inflitte alle povere sfortunate sorprese a violare le rigide disposizioni. Era consentito strappare loro le vesti e i monili indossati e avere diritto alla metà dei valori sequestrati. Oltre alle atroci frustate: inflitte in numero non inferiore a cinquanta e fino ad un massimo di cento. Era poi imposto il taglio dei capelli e, in caso di recidiva, potevano essere rasate anche le sopracciglia.

La curia si limitava, invece, alla fustigazione o ad una pubblica penitenza da scontare davanti alla porta maggiore della chiesa. Come quella imposta nel 1603 ad una tale Mattea La Russa da Vizzini, la quale dovette rimanere genuflessa per tutto il tempo della messa, tenendo una candela accesa con le mani legate
Al rigido regime di controllo e proibizioni non potevano passare inosservate nemmeno le calzature, considerate altro elemento di lusinga dell’epoca. Le “impudiche” non potevano calzare scarpe ma era imposto loro di portare i “tappini”, sorta di zoccoli usati per stare in casa. L’imposizione non ebbe il solo scopo di inibire l’uso delle scarpe, quale possibile elemento di ostentazione, ma anche quello di segnalare le meretrici presenti in luogo pubblico. E fu proprio a seguito di questo obbligo che la donna di malaffare venne indicata pure con il termine di “tappinara”.