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(7)

ovvero
Sasso, carta, forbice, lizard, spock

di Giulia Cultrera 

Elezioni americane. In un momento in cui l’opinione pubblica è divisa tra il sostegno a Trump o a Biden, è bene puntare avanti, volgere lo sguardo al futuro. 

Payton Hobart sarà, un giorno, presidente degli Stati Uniti d’America. La sua intera vita è stata pianificata per raggiungere quest’ambizioso obiettivo. Ad ogni costo.

Si parte – neanche tanto – in sordina con la carica di presidente del consiglio studentesco, passando per la nomina di senatore dello Stato di New York, alla candidatura di vicepresidente americano. 

Non mancano gesti eclatanti ed estremi per ottenere voti e screditare l’avversario a suon di scandali, imbrogli, tradimenti, denunce e finti rapimenti. Sullo sfondo di gravidanze più o meno desiderate, proposte di secessione, contese che diventano alleanze, relazioni clandestine, conflitti generazionali, tutto è consentito. Persino assoldare maldestri sicari, infiltrare dei fidati collaboratori o scavare a fondo nella vita privata dell’avversario.

Di certo, senza scheletri nell’armadio non si può intraprendere una carriera politica. È una questione di rispetto nei confronti degli altri candidati: in mancanza di punti deboli e insicurezze, non saprebbero a cosa appigliarsi per denigrare e distruggere il rivale. 

Ecco perché il quinto episodio di ciascuna stagione cambia prospettiva e mostra i candidati dal punto di vista degli elettori, che rimangono puntualmente delusi dai loro comportamenti artefatti e arroganti.

Menzione d’onore per la sigla, un piccolo capolavoro che merita di essere guardato senza ricorrere allo skip di rito.

Serie tv ironica e dissacrante, fortemente surreale e, al tempo stesso, così fedele alla realtà. Una realtà che appare straniante e invita alla riflessione.

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