di Christian Pancaro
Scriveva Enrico Onufrio (giovane scrittore palermitano della fine del sec. XIX) nel suo “La Conca d’oro: Guida pratica di Palermo“, edita nel 1882:
«Anche a San Martino, il dio delle battaglie, il popolo palermitano è devoto al suo solito, s’intende, vale a dire banchettando a maggior gloria del santo. È in tal giorno che s’imbandiscono a tavola i più grossi tacchini della terra; e cotesta del tacchino è un’abitudine così inveterata, che tu non sai bene se la festa sia in onore del dio Martino, o del dio Tacchino; è un bellissimo argomento per un archeologo. Il dolce occasionale di San Martino è il biscotto, un biscotto sui generis, grosso e rotondo, e per conservare intatte le sacre tradizioni degli avi, cotesto biscotto bisogna inzupparlo nel moscadello».

Ancora oggi nel palermitano, venuta meno la tradizione il tacchino, è vivo il consumo del vino moscato e di questi biscotti, veri pani dolci rituali che ricordano la cerimonia eucaristica. Ma quale è la loro l’origine? Risulta difficile collocare nel tempo la nascita di questa usanza. Molto probabilmente, aveva lo scopo d’inaugurare il vino nuovo, attraverso la degustazione di questo pane dolce dall’antica forma a spirale composto di fior di farina e semi di finocchio e cotto tre volte (tricotto).
Il biscotto presenta tre varianti: quello che abbiamo appena descritto viene denominato “Sanmartinello”; il secondo è farcito con ricotta e prende il nome di “Rascu”; il terzo, descritto da Antonino Uccello in “Pani e dolci di Sicilia” (1976, pag. 96), è «ripieno di pasta di mandorla, conserva e pan di Spagna imbevuto di liquore, ricoperto di una velatura di zucchero, confettini argentati, cioccolatini, e riccamente decorato con fiori e ciuffetti di verde».
Queste tipologie vengono ancora oggi prodotte in enormi quantità da pasticceri e fornai che si tramandano tramandandosi le antiche ricette provenienti da conventi e monasteri. È infatti noto che in molti conventi, come in quello dei Frati Minori dell’Immacolata a Mezzojuso (PA), gli stessi frati mandassero in dono al barbiere che prestava loro servizio, così come ai sacrestani e ai massari, un “rotolo” di biscotti e un fiasco di vino.
A Palermo le monache donavano ai loro confessori vassoi colmi di biscotti decorati. Le domenicane del Monastero di Santa Caterina, secondo le ricerche effettuate dalla studiosa Maria Oliveri sui loro registri contabili, avevano annotato le spese sostenute per far dono di “Viscotta di San Martino” ai pittori Antonio Grano e Filippo Randazzo, nel periodo in cui erano impegnati ad affrescare la chiesa.
La stessa Oliveri scrive a proposito della variante con la ricotta: «In molti pensano che rasco o rascu significhi raschiare una parte del biscotto per disporre meglio la farcitura. In realtà il dizionario siciliano italiano curato da Vincenzo Mortillaro nel 1838 definisce rascu genericamente come fior di latte, ma come meglio chiarisce Rosario Rocca, nel suo dizionario pubblicato nel 1889, rascu è la ricotta fatta con lo Xiuri (il fiore), ottenuta cioè non attraverso la coagulazione della caseina, ma dalle proteine del latte.”
Questi biscotti, nei giorni precedenti la festività ,venivano “riffatti” ossia sorteggiati mediante una lotteria popolare, per l’appunto la “Riffa”. Nei mercati popolari della città, un biglietto poteva essere acquistato con pochi spiccioli; il proprietario del biglietto vincente si aggiudicava una confezione da dieci o dodici biscotti.
I nostri antichi sostenevano che: «Cu si leva di vinu dici Viva San Martinu!», perpetuando, secondo quanto dicono molti studiosi come Giuseppe Pitrè, le antiche feste dionisiache delle Antesterie, che venivano celebrate con baccanali e abbondanti libazioni di vino proprio in questa data in cui si assaggiava il vino nuovo.