di Vito Castagna
Canto XXXIV
Ugolino addentava il cranio di Ruggieri con una ferocia cieca. I suoi occhi, che qualche istante prima avevano pianto con dolore così umano, adesso erano acquosi e persi nel vuoto, dominati dall’istinto della bestia. I gemiti dell’arcivescovo venivano trasportati dal vento gelido che ci screpolava le labbra; non potevamo rimanere a lungo. Guardai un’ultima volta quei due peccatori che avevano perso ogni traccia della loro umanità, poi, li lascia alle mie spalle, fino a quando non fummo troppo lontani da non vederli.
Camminammo lungo il lago ghiacciato, contendendo ogni passo ai venti che ci sferzavano contro. Cercai di proteggermi dietro Virgilio ma i miei piedi erano ormai tanto gelati da rallentarmi. Ad un tratto, egli mi disse: «Ecco i vessilli del re dell’Inferno. Siamo ormai vicini».
Continuammo a muoverci. Qui le anime erano interamente ricoperte dal ghiaccio e si scorgevano a fatica sotto il vitreo pavimento, incarcerate dal lago nelle pose più disparate. Un sinistro ordine albergava in quella loro disposizione che poteva sembrare casuale.
Virgilio si fermò nuovamente e indicò nell’apparente vuoto: «Ecco Dite. Adesso dovrai armarti di coraggio!». A quelle parole un gelo funesto mi penetrò nel cuore e la tormenta che mi celava la vista si dileguò, rendendo chiaro ciò che mi aspettava. L’imperatore degli Inferi aveva la testa e il petto che fuoriuscivano dal ghiaccio ed era così grande a vedersi che le mie membra e quelle dei giganti potevano sembrare proporzionate. Ero atterrito dal pensare quanto potesse essere grande nella sua interezza quel mostro. Se egli fu tanto bello quanto ora è brutto, è giusto che da lui provenga ogni dolore.
Aveva tre teste: quella al centro era rossa, le altre due si univano a questa nella nuca, una era tra il bianco e il giallo, l’altra era così scura da somigliare alla pelle di quelli che vivono nella valle del Nilo. Sotto ogni volto vi erano due ali di pipistrello, così grandi che mai vidi vele più possenti, e da queste si generavano i tre venti che gelavano il Cocito. Aveva sei occhi, le sue lacrime colavano su tre menti dai quali pendeva una bava sanguinosa e in ogni bocca dilaniava un peccatore coi denti.
Quello che veniva punito al centro era masticato e la sua schiena era scorticata dalle unghie nere. «Le gambe che fuoriescono dal centro sono di Giuda Iscariota» disse la mia guida «perché ha la testa nelle fauci del demonio. Quello che invece pende dal volto nero è Bruto, che si contorce senza emettere alcun lamento. L’altro è Cassio, dalle forti membra. Adesso è quasi notte e dovremmo andarcene. Ormai, hai visto ogni cosa di questo orribile luogo».
Virgilio mi ordinò di salirgli sulla schiena, cingendo le mie braccia al suo collo. Egli attese che le ali si aprissero, poi, si aggrappò al fianco del re degli Inferi e si mosse verso il basso inabissandosi nel Cocito. Arrivati al bacino, il suo respiro si fece più affannato, come di chi stesse salendo, e temetti che stessimo ritornando indietro. «Tieniti forte, perché dobbiamo salire per questa scala se vogliamo sfuggire a questo dolore» disse prendendo ampie boccate.
Vedemmo una spaccatura nella roccia e Virgilio continuò a salire aggrappandosi al fetido pelo. Quando uscimmo fuori da quel passaggio, mi fece sedere sull’orlo per riprendere fiato. Di fronte a noi vi era un impervio passaggio, che seguimmo affrettando il passo, desiderosi di respirare l’aria della notte. Ci arrampicammo fino a quando non trovammo la bocca dell’antro. La mia guida mi precedeva e di colpo si fermò a guardare in alto. Arrivai qualche istante dopo e vidi i suoi occhi bagnati da un dolce pianto che si perdevano ad osservare il cielo. Mi feci avanti ed uscii dalla grotta per rivedere le stelle del nuovo emisfero.