di Luigi Lombardo
Settembre è il mese della vendemmia classica quale si praticava ad esempio a Pachino non molti anni addietro (con le stesse tecniche fino agli anni ‘60 del ‘900). Essa iniziava dopo la festa della Madonna Assunta duoppu a festa ra Maronna (15 Agosto), si ripeteva infatti dai contadini questo detto:
“Duoppu a festa a Maronna r’austu
si pripara a utti po mustu.”
(Dopo la madonna d’agosto / si prepara la botte per il mosto)
Ma spesso le prime piogge d’agosto dissuadevano dall’iniziare le operazioni. I lavori veri e propri si svolgevano lungo l’arco di una quindicina di giorni (di solito a cominciare, come detto, dai primi di settembre). Un paese intero si dava la sveglia quasi all’unisono: vedevi un paese indaffarato, preoccupato, interamente preso dalla vendemmia, fra attese e speranze: in paese non si parlava d’altro. Intere famiglie “a-ccascia i carrettu” si avviavano alle vigne fuori paese: alla Chiappa, Carcicina, Bonivini, alla Scirbia, a Barracchinu, a Terreni nuovi o nei vigneti di Terranobile.

Oggi la vendemmia si compie quasi in sordina senza la gioia e il clamore di un tempo. Il ritmo è quello imposto dalla civiltà delle macchine: velocità e risparmio. Un tempo le stesse tecniche tradizionali imponevano ritmi più umani, che lasciavano il tempo all’esplicarsi delle mille forme della comunicazione sociale da individui, gruppi e sessi. Non c’era vendemmia senza canti, battute, e data la presenza delle donne intente a “raccioppari”, nascevano amori e promesse di matrimonio.

I giovani, che speravano in un ingaggio, si portavano con le loro corbelle (cruedda), intrecciate di canne e lentischio (listincu), o di canne e oleastro (agghiastru), nella piazza del paese. Qui venivano contattati dai sinzali, mediatori, o direttamente dai proprietari dei fondi, coi quali pattuivano il prezzo dell’ingaggio: se era di un solo giorno si diceva “a-llivata”, e il compenso si doveva a tutta la ciurma che provvedeva a dividerlo fra i lavoranti. Se, come era più comune, il lavoro si protraeva per più giorni, si pagava a giornata. Il proprietario doveva corrispondere il vino da pasto e il companatico. All’accordo seguiva la consegna della corbella da parte del ragazzo al padrone a pegno dell’ingaggio (se c’era il mediatore bastava la sua parola).

Giunta all’antu (il nome indicava la vigna da vendemmiare ed era mutuato dal campo da mietere), la squadra sceglie il capo (capuciurma), che provvedeva a sua volta a disporre ciascun uomo nel proprio filare (filagnu). Al segnale convenzionale del capo si inizia: un tempo l’inizio dei lavori era scandito con un’invocazione a carattere religioso “A-nnomi di Diu e di li santi”, poi sostituita da frasi quali “Amici miei, ttaccamu”, o “Susitivi ch’è-gghiornu”.

Si iniziava con grande lena, e a metà filare ci si cominciava a punzecchiare l’un l’altro, e spontaneo nasceva il canto, o la battuta sarcastica o il proverbio pungente e attinente ad un particolare difetto di qualche vendemmiatore.
In genere il capo iniziava una sfida col compagno a chi riempiva per primo la cesta:
Infatti chi per primo la riempie, agitandola in aria, esclama, rivolto ai compagni:
“Primera […] cu nun è-ccinu si rispera” (“Premiera chi non l’ha piena si dispera”, la premiera è nel gioco delle carte il possesso della maggior numero di carte di sette).
La presenza delle donne “raccioppatrici” stimola il canto e in particolare il canto d’amore spesso a doppio senso:
“Signura zzita, siti bbomminuta
dumani fazzu a-bbui la bol-livata
la vostra vigna stasira si puta
e-ddumani si ttrova vignignata” (Sortino)

Quest’altra, molto bella, paragona la donna al grappolo d’uva da pistari:
“Vui siti la rracina e iu vi pistu
vui siti lu tinieddu e iu lu mustu
dammi ssa ucca quantu ca la tastu
ca si m’austa viegnu ppi lu rrestu!
(Voi siete l’una e io vi pesto / voi siete il tinello e io il mosto / dammi quella bocca perché la tasti /ché se mi gusta vengo per il resto!): Cosa sarà “il resto” ciascuno può immaginare.

Fioccavano motti e sentenze dai più anziani a mo’ di ammonimento ai più giovani, specie quando in mezzo c’era qualche lavativu o allintatu o peggio strafottenti, in questo caso si raccontavano apologhi e si ricordavano episodi e fatti successi al fine di insegnare al tizio “l’educazione”. Sempre gli anziani ricordavano il tempo passato e criticavano il presente o gli errori che si facevano dai nuovi padroni che pretendono raccogliere subito l’uva:
“Cuogghi appena matura la rracina
Ccu buon tiempu e asciutta r’acquazzina”
Il che significava che era sbagliato iniziare all’alba la vendemmia. Poi c’era chi rimproverava i giovani per la scarsa cura nel coltivare la vigna e si ricordava che
“Cu avi bbona la vigna
avi pani, vinu e-lligna”.
(La vigna ben tenuta assicurava il pane, il vino e il fuoco).

Riempita la corbella, ciascun vendemmiatore la trasportava a spalla (ma spesso erano le donne a portarla a destinazione) fino alla tina caricata sul carretto dove veniva svuotata. Se qualcuno dei vendemmiatori cominciava a perdere tempo in chiacchiere inutili, presto arrivava il richiamo del capociurma:
“Càliti e sura!” (abbassati e suda).
Riempita la tina, il carretto si avviava verso il palmento. Se questo era vicino alla vigna, i vendemmiatori erano obbligati a scaricare l’uva raccolta nei pigiatoi del palmento. Alla fine della vendemmia entravano nuovamente in azione le squadre delle “raccioppatrici” che provvedevano a ripassare le vigne, vendemmiando i grappi rimasti (l’operazione prendeva il nome di racciuppari, da raccioppu, piccolo grappolo).

Non era un lavoro vero e proprio, per cui i vendemmiatori che avevano terminato il lavoro le aspettavano per cominciare il solito babbìu a base di battute e “risatelle”, che a volte infastidivano le donne, piegate a raccogliere qualche chicco d’uva per la giornata, ma spesso da questo momento di non-lavoro (come gli esperti operai definivano il raccioppari) scaturivano amori e simpatie, che potevano portare a una rapida e reciproca promessa di fidanzamento e matrimonio: e la vita continuava.
