Con l’articolo di oggi, tratto dal volumetto n.5 di “Senzatempo”, Oltreimuri inaugura una nuova categoria del blog dal titolo “Omaggio a Senzatempo”, per ricordare la figura del compianto amico Giovanni Bertucci, editore dei sei volumetti da collezione, pubblicati tra il 2010 e il 2012 a Chiaramonte. In effetti l’omaggio odierno sarebbe anche duplice, perché la storia narrata è stata scritta nel 2011 dal prof. Vito Calabrese, prima tromba alla Scala di Milano per tanti anni. Purtroppo venuto a mancare prematuramente anche lui nel 2016.
di Vito Calabrese
A noi, “ragazzi degli anni Cinquanta” la fantasia non mancava. La strada, i cortili, i carruggi e la piazza erano il nostro regno e ci si accontentava di poco. Sbrigate le quotidiane formalità scolastiche, tornavamo a casa soltanto per mangiare e dormire. Il primo appuntamento dei nostri personalissimi doposcuola era la strada “ro Baruni Muntisanu”. Calcio che passione! Palla al centro e via. Inutile dire che la “palla” con la quale ingaggiavamo le nostre estenuanti partite era sui generis. La confezionavamo all’istante sul campo di gioco. La piu usuale era quella fatta con i giornali ricoperta con uno straccio. Ma a volte giocavamo anche con un pallone con la camera d’aria che usciva dal cuoio, a noi andava bene lo stesso.

Giocavamo senza portiere e per porta (una sola) una saracinesca di un garage. Al fischio d’inizio erano tre o quattro i ragazzi schierati in campo, ma con il trascorrere del tempo le squadre aumentavano di numero. Il campo non aveva limiti di spazio. Chi sapeva dribblare bene, palla al piede, partiva dalla “strada del Barone” e correva in direzione Majore trascinandosi dietro tutta la ciurma di inseguitori. A volte il gioco, improvvisamente, si fermava proprio davanti alla porta dell’omonimo ristorante. Uscivano certi profumini! La brevissima sosta, in quel sacro luogo dove si magnifica “u puorcu” durava qualche secondo: giusto il tempo di assaporare virtualmente, e nel suo intenso profumo, la mitica gelatina.

A interrompere il gioco ogni tanto transitava una macchina e tutti i duellanti (in ossequio a una regola non scritta) si dovevano fermare. Congelati in un fotogramma, come in un cartone animato. Il gioco riprendeva dal punto in cui era stato interrotto. A volte a disturbare le nostre partite faceva irruzione anche una delle guardie municipali, il Signor Orazio, conosciuto come “Raziu…” Eh si, allora nei paesi tutti avevano una ‘nciuria, un soprannome. Non averla significava che non contavi niente.

Orazio era un bonario “Commissario Basettoni” che tentava (invano) di porre fine alle nostre interminabili partite. Poco convinto, ci intimava: “Arà carusi, finitila pirchì passunu i machini”. Ma appena la guardia municipale girava l’angolo tutto riprendeva come prima. Al calar della sera sentivamo in lontananza un suono inconfondibile: “popi popi”; era il clacson dell’autobus “re Schembari”. Per i duellanti quell’apparizione segnava la fine della tenzone. Fischio finale!

Laceri, sporchi, contusi e affamati si rientrava a casa. Domani sarà un altro giorno: altre storie pallonare da raccontare, come quando giocavamo alcune partite “regolamentari” che a volte si disputavano in un campo di calcio, si fa per dire, vero. Lo “stadio” era quello di San Vito dove per trovare un filo d’erba bisognava cercarlo “ca lumera”. Ma per noi adolescenti quel campo di gioco “mpruvulazzatu” era il nostro “Maracana”. L’unico inconveniente era che il pallone ogni tanto finiva nel vallone “ro fumazzaru”, una sorta di discarica pubblica. Poi tutti alle docce! All’aperto. Destinazione “a funtana”.

Che bella sensazione lavarsi, soprattutto d’estate, sotto quei tre canaloni di acqua fresca e trasparente, altro che idromassaggio! E poi gli anni spensierati della scuola. L’Avviamento con indirizzo agrario, i miei compagni di “studio”, alcuni dei quali inseparabili. Soci e complici di ingenue e maldestre avventure. “Capo classe”, o meglio dire “capo banda” e indiscusso leader era mio cugino Vito Sciacco. Per alcuni del mio gruppo la scuola era vissuta come un incidente di percorso che intralciava i nostri divertimenti quotidiani. Vito Sciacco era il più convinto assertore di questa originale corrente filosofica.

Sempre in quel periodo frequentavo la scuola di musica. E chissà, forse è stata proprio la musica a farmi capire che non sarei mai diventato un buon agronomo. Era diretta dal mitico maestro Vito Cutello. Un bravissimo (burbero gentiluomo) insegnante al quale devo molto. È stato lui che mi ha trasmesso l’amore per la musica. Ma devo molto anche a un altro bravissimo insegnante: il Maestro Gian Battista Nobile, pianista e apprezzato organista. Mi dava lezioni gratis, io come atto di riconoscenza lo seguivo quando suonava in chiesa in occasioni di importanti ricorrenze, quali sposalizi e funzioni religiose.

Il mio compito era quello di voltare le pagine dello spartito e manovrare il mantice dell’organo che a quei tempi non era ancora elettrico. A volte accadeva che le mie braccia si stancavano e lasciavano improvvisamente la leva del mantice causando l’afflosciamento della nota per mancanza d’aria. Ma, nonostante quei momenti sacrali il maestro mi urlava lo stesso: “Viiitu, alluraaaa!”

L’organo mi piaceva, ma non era tra i miei strumenti preferiti. A me piaceva il violino e la tromba. Alla fine scelsi quest’ultima. Strumento che anche mio padre suonava nella banda di Chiaramonte.
Il maestro Cutello dopo un anno di scuola decise che ero “maturo” e mi fece debuttare nella banda. Fu una gioia immensa. ll corpo musicale di Chiaramonte era molto quotato anche fuori provincia e si andava spesso in trasferta. Una volta abbiamo attraversato persino lo stretto di Messina per un concerto a Reggio Calabria. Per noi giovani e giovanissimi strumentisti quelle trasferte erano un vero divertimento. Anche se il futuro mi avrebbe riservato palcoscenici più prestigiosi, ricorderò sempre le emozioni e la nostalgia per quel concerto eseguito dalla nostra banda nella piazza principale di Reggio Calabria.

E poi come non ricordare le tante esibizioni fatte in paese in occasione delle feste religiose. Soprattutto durante la settimana della Madonna di Gulfi. La Regina delle feste. Per quelle occasioni la banda lucidava gli strumenti a festa e facevamo molte prove al fine di preparare un programma degno dell’evento. I nostri concerti in piazza erano particolarmente seguiti da uno sparuto gruppo di estimatori locali e molti appassionati arrivavano anche dalle vicine province. AI resto della popolazione bastava sapere che la banda suonava in piazza. Infatti, appena il maestro Cutello dava l’attacco, i paesani erano già ai blocchi di partenza pronti “p’ ‘a passiata”. Tutti “allicchittiati” a festa. Si partiva proprio dalla piazza e si emigrava verso la Villa Comunale. I più erano muniti di enormi cartocci colmi “ri calacausi e simenta” che si sgranocchiavano proprio durante quelle gioiose transumanze.

I ricordi adolescenziali non mi hanno mai abbandonato lungo il corso della mia lunga carriera professionale. A volte, anche per stemperare la tensione che si accumulava durante i tanti concerti in giro per il mondo mi rilassavo pensando alla mia infanzia. Rivedo la via San Paolo, cuore pulsante di Chiaramonte. Più che una via era un teatro all’aperto. Una sorta di palcoscenico shakespeariano con i suoi folcloristici personaggi che la popolavano e la facevano vivere, piena di negozi di tutti i generi gestiti da proprietari che sembravano usciti dalle pagine di una novella di Pirandello.

C’era “Luciddu u macellaio”, “Le magnifiche quattro” che gestivano le loro botteghe di frutta e verdura. Cioè quelle di “ronna Paulina a russa”, delle due “gna Cuncée” e di “ronna Bastiana”, dove in bella mostra, c’erano sempre le primizie che arrivavano da tutta l’isola. In fondo alla via c’era l’ultima bottega di frutta quella “ro Caciciu”, fruttivendolo anche a domicilio. E poi vi erano tanti altri negozi: l’elegante bottega di scarpe del signor Iacono D’Avola, Vito Damato detto “u Pantanu”, con la sua drogheria piena di liquirizia e di spezie e, vicino alla piazzetta (San Paolo), si trovava la bottega del Signor D’Angelo, il primo drugstore del paese, dove si poteva trovare di tutto: dalle taniche di benzina ai minnichini. Le tante botteghe artigiane: quelle “ro Narcisu” – decano dei calzolai – a putia di mio padre Raffaele e persino uno studio medico che all’occorrenza fungeva anche da dentista.

Il venerdì, poi, faceva la sua apparizione, proveniente dalla piazza principale, “Turi u Marchisî”, banditore ufficiale del paese, il quale, tamburo a tracolla annunciava: “Sintiti, sintiti, sintiti! Arrivau u pisci friscu!”. Una volta alla settimana, infatti, dalla marina arrivava il pesce fresco e lui era, come si direbbe, il testimonial di quell’evento. Testimonial che a volte non riusciva a terminare l’annuncio perché, povero Signor Turi, era fatto oggetto, da parte di noi “carusazzi”, di lanci di pomodori e ortaggi vari. Qualche volta sì arrabbiava e ci gridava: “Ah, curnutazzi, fitusi figghi ri b…!” Ma poi imperterrito ripartiva e… “Sintiti, sintiti…”.

“Alle cinque della sera” (come nella poesia di Garcia Lorca), in alcuni particolari giorni, c’era la spasmodica attesa dell’arrivo dell’autobus dei F.lli Schembari proveniente da Catania.
Ricordo quel giorno l’autista del bus ci abbozzò un sorriso. Capimmo subito che aveva con sé la “preziosa merce”. Alzò al cielo l’enorme scatola rotonda di metallo e annunciò trionfante: “Stasira tutti o cinima!”. Eccola, finalmente. La bobina tanto attesa dell’ultimo film di Totò. Per il paese fu festa grande. Ho sempre pensato che il Premio Oscar Peppino Tornatore in una sequenza del suo splendido film “Nuovo cinema paradiso”, si fosse ispirato, forse inconsapevolmente, a un episodio analogo.

Ora la bacheca dei miei ricordi sta per chiudersi. Termino questo mio viaggio della memoria con la mia unica esperienza lavorativa (si fa per dire) fatta a Chiaramonte. E sì, allora i ragazzi andavano anche a bottega per imparare un mestiere. E fu così che mio padre mi mandò da don Saro Curatolo. Sarto raffinato, ricercatissimo soprattutto dal clero di tutta la provincia. La sartoria, infatti, era specializzata nella confezione di abiti religiosi. Il mio ruolo era attaccare bottoni alle tonache e accendere il ferro che allora era alimentato a carbone. Ma anche consegnare a domicilio gli abiti della prestigiosa sartoria. Un compito molto ambito dai ragazzi di bottega come me, perché ci scappava sempre una ricca mancia. Quella volta il destinatario della mia consegna era un notabile del paese.

Consegnai l’abito alla servitù e pronta mancia. L’indomani il nobiluomo, con indosso il vestito nuovo griffato Curatolo, si recò di buon mattino presso a bottega di mio padre facendogli delle vibrate rimostranze. “Suo figlio Vito è un villano e maleducato”, tuonò il nobile. Mio padre replicò: “E chi successi cavalieri?!”. Era accaduto che la mancia che mi aveva elargito la domestica fosse di sole 5 misere lire. Un affronto per me! Non avendola ritenuta degna dei miei servigi avevo infilato la “banconota”, come atto di sfregio, dentro l’anello del chiavistello del portone della nobil casata. Fu uno degli ultimi scherzi della mia spensierata adolescenza vissuta in paese. Poi? Poi un giorno da Siracusa partì un treno, La Freccia del sud. Destinazione Milano. Il ragazzino di 13 anni che suonava la tromba, su quel treno, diventò improvvisamente adulto…

Vito Calabrese, diplomatosi presso il Conservatorio “G. Verdi” di Milano, ha iniziato giovanissimo la carriera artistica facendo parte del complesso “I Giovani Solisti di Milano”, formato e diretto da Claudio Abbado. È stato prima tromba nell’Orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano. Nel 1961 è entrato a far parte dell’Orchestra del teatro alla Scala ed è diventato socio della Filarmonica della Scala fin dalla fondazione della stessa. Con queste orchestre ha suonato, diretto dai piu grandi direttori contemporanei quali Karajan, Bernstein, Abbado, Kleiber, Metha, Osawa, Muti, ecc., nei più famosi teatri d’opera e sale da concerti di tutto il mondo. Ha fatto parte anche del “Ensemble Trombe e Timpani della Scala”, gruppo che è stato invitato dal Maestro Muti ad esibirsi al Ravenna Festival. Ha insegnato al Liceo Musicale di Pavia, al Conservatorio “G. Nicolini di Piacenza” ed al Conservatorio “G. Verdi” di Milano. Il 24 maggio 2011 ha dato l’addio alla camera solistica eseguendo un concerto di musica barocca nei Duomo di Milano È venuto prematuramente a mancare nel 2016.
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Veramente interessante